Sulla scia degli studi sul transfer culturale, le traduzioni d’opera sono diventate negli ultimi decenni oggetto di un numero crescente di studi. Tuttavia, gli studiosi dell’opera hanno finora trascurato le traduzioni dall’italiano al tedesco fatte prima del 1750, nonostante la loro importanza per la storia per i primordi dell’opera tedesca. I teatri pubblici di Amburgo, Lipsia e Braunschweig, in cui si praticava un repertorio primariamente di lingua tedesca per venire incontro a un pubblico meno poliglotta di quello di corte, basavano una parte considerevole del loro repertorio su traduzioni di libretti italiani. I traduttori non solo dovevano occuparsi degli aspetti metrici e semantici, ma anche adattare in maniera più o meno consistente il testo di partenza al nuovo contesto esecutivo e al nuovo pubblico di riferimento. Uno degli aspetti più interessanti di questi fenomeni di riscrittura (riprendendo il concetto di rewriting formulato dal comparatista André Lefevere) è la comicità. Un caso di studio rilevante è la traduzione dei libretti tragicomici di Nicolò Minato (in particolare quelli con filosofi antichi come protagonisti), originariamente scritti per la corte viennese e adattati per la Gänsemarktoper di Amburgo. Le scene comiche di Minato comprendevano per lo più casti giochi di parole, battute sui filosofi e osservazioni satiriche sui membri della corte degli Asburgo. I traduttori tedeschi mantennero solo alcuni di questi elementi nelle loro riscritture: spesso modificarono scene comiche preesistenti e ne crearono di nuove, introducendo talora un registro linguistico volgare (che sarebbe stato fuori contesto alla corte imperiale) e alludendo in maniera satirica alle mode francesi che spopolavano nella città anseatica. L’intervento indagherà alcuni casi di studio relativi a opere viennesi tradotte ad Amburgo al fini di mostrare come temi cari alla dinastia degli Asburgo subissero, nel processo di traduzione/riscrittura, modifiche sostanziali per adempiere a scopi differenti.
In Semiosfere (Tartu 1984), il grande semiologo russo Jurij M. Lotman definiva la cultura come un organismo complesso: uno spazio dinamico, dissonante, polilogico, instabile per definizione, intessuto di flussi di testi che generano dialoghi, intersezioni, movimenti. Lo spazio culturale della semiosfera è un reticolo di testi che si richiamano e si rigenerano gli uni con gli altri: nessun testo è isolato, ma è il condensato di una tradizione intertestuale che include talora anche il rimando ad altre forme mediali.
Il dialogo intertestuale, connaturato di per sé alla produzione di qualsiasi testo, diviene addirittura costitutivo in alcuni generi, come la traduzione e l’adattamento, che sono fra i più potenti stimoli allo sviluppo culturale. La prima è il processo cardine che consente l’acquisizione alla sfera della cultura di testi provenienti dall’esterno, dalla materia amorfa che circonda la semiosfera; il secondo consiste nella generazione di nuovi testi di secondo grado a partire da un testo di primo grado. Quanto più è profondo e polisemico il testo di primo grado (prototesto), tanto più ricca è la progenie di testi di secondo grado (metatesti) che ad esso si richiamano, sicché si può facilmente arguire come la rete intertestuale di cui è intessuta una semiosfera consti di un numero ridotto di prototesti e un numero esponenziale di metatesti. Dalla pagina scritta di Dante, la storia di Paolo e Francesca migra ad esempio in quella del Petrarca, nelle tele di Anselm Feuerbach, Gaetano Previati, Umberto Boccioni, nelle scene di Silvio Pellico e Gabriele d’Annunzio, nelle partiture di Čajkovskij, Zandonai, Mancinelli, nella pellicola di Raffaello Matarazzo ecc.
Per molto tempo la critica delle arti si è approcciata in termini spregiativi al fenomeno degli adattamenti. Il dibattito critico ha finito spesso per polarizzarsi attorno a dicotomie sclerotizzate come autentico versus falso, originale versus derivato, fedele versus infedele. Sebbene tali categorie appaiano oggi obsolete, rimane intatto il valore conoscitivo che può venire dall’approfondimento dei nodi critici e degli assunti che, nella storia, hanno animato la discussione critico-estetica sulle pratiche di adattamento. Dalle polemiche contro il melodramma dei letterati dell’Arcadia a quelle di inizio Novecento sugli adattamenti filmici di romanzi letterari od opere liriche, quelle discussioni hanno implicato di volta in volta giudizi di valore estetico (l’essenza di un’opera d’arte può essere trasferita in un linguaggio altro da quello in cui è stata concepita?), giudizi di valore etico (cosa conduce a parlare di “profanazione” a proposito dell’adattamento di un’opera di acclarato valore artistico?), gerarchizzazioni dei linguaggi (in quali casi la “riduzione” di un testo implica una degradazione del suo valore estetico?), assunti circa i processi di appercezione estesica (come cambia la percezione di un adattamento se lo spettatore serba memoria dell’originale?) ecc.
Il mero accenno a nodi critici di tal genere basta a dimostrare l’insufficienza di una nozione di adattamento come mera “riduzione” di un originale e, a un tempo, l’inadeguatezza della categoria di fedeltà come metro di giudizio per quei prodotti. Più aggiornate e pertinenti chiavi di lettura tendono a considerare i processi di adattamento e i loro prodotti come la riconfigurazione di un testo di partenza in un nuovo e autonomo artefatto culturale, il che comporta sempre la transcodifica del sistema di segni di partenza in un nuovo sistema di segni e convenzioni.
Il ciclo 2022 delle Conversazioni di Athena Musica porrà a tema il fenomeno degli adattamenti in una duplice prospettiva: in chiave teorica, nel senso di una riflessione sui processi semiotici di generazione di uno o più metatesti a partire da un prototesto; in chiave storica, come ricostruzione e documentazione filologica di effettive pratiche di adattamento situate in specifici segmenti temporali e concernenti peculiari tipologie di testi e media:
traduzioni e riscritture nell’opera fra Sei e Settecento (Livio Marcaletti)
adattamenti di classici della musica strumentale (Chiara Bertoglio)
reinterpretazioni e rifacimenti nel fenomeno pop della cover (Stefano Lombardi Vallauri)
riletture in chiave intermediale (Giacomo Albert)
trasferimenti dal musical al film musicale (Marida Rizzuti)
oggettivazioni cinematografiche del romanzo psicologico (Francesco Finocchiaro)
transfer mediali dalle scene operistiche al fumetto (Pessarrodona).
Completa il programma delle Conversazioni 2022 una prestigiosa serie di conferenze su temi liberi:
la IV Sinfonia di Mahler (Carlo Serra)
il pensiero musicale in Kant (Antonio Serravezza) e Hamann (Maurizio Giani)
la trattatistica musicale novecentesca (Anna Ficarella).
Le Conversazioni si terranno parte online, parte in presenza nel Museo Internazionale e Biblioteca della Musica di Bologna.
L’intervento intende offrire alcune riflessioni circa la situazione sociale e politica della concezione estetico-musicale di Richard Wagner. Alla luce dei suoi scritti e dei contenuti di alcune sue opere si intende chiarire quali siano i contenuti ideologici presenti nella sua concezione dell’arte e del Wort-Ton-Drama, contenuti che rispecchiano le sue contraddizioni e gli inganni di un’arte che ha aperto la strada agli ideali antisemiti di germanicità e Volksgemeinschaft.
L’esegesi dello stile della saggistica critica sulle arti potrà sembrare uno strano esercizio di bizantinismo, trattandosi di un meta-meta-discorso, di un ente di quarto grado: un pensiero (l’esegesi stilistica) a proposito di un altro pensiero (la saggistica critica) concernente un altro pensiero (le opere artistiche) intendendo queste a loro volta come un pensiero sulla realtà. Un’apoteosi del metadiscorso; a dir poco, sovrastrutturale. Può darsi. Tuttavia tale esegesi ha la pretesa di non essere futile, di avere una motivazione soda, consistente: essa nasce per rendere giustizia a una concreta esperienza che smentisce la supposta irrilevanza di questa stratificazione in cui ogni successivo strato sarebbe più evanescente. Un’esperienza del genere ciascuno l’ha provata: è che talora, leggendo un saggio critico, la sostanza di ciò che leggiamo manifesta per la nostra coscienza la stessa genuinità degli strati presuntamente più diretti, la realtà e l’arte; e in particolare, il pregio di ciò che leggiamo non sta meno nello stile che nel contenuto, esattamente come per l’arte. Il meta-meta-discorso si rivolge comunque a una realtà, ancorché mediatissima, la cui vividezza e attrattiva non è talvolta meno diretta e intensa di quella della realtà immediata o dell’arte. Esiste un valore – sia estetico sia morale – di questa scrittura di secondo terzo ennesimo grado, un valore che si sostanzia propriamente nel suo stile. Non solo non è futile, è indispensabile, interrogarlo.
Il performative turn che ha investito la musicologia negli ultimi anni ha prodotto risultati modesti, conseguenza delle motivazioni in gran parte ideologiche che ne hanno ispirato la proposta. Tuttavia si è trattato di un’occasione di riflessione importante, poiché ha chiamato la musicologia storica al confronto con altri paradigmi e modelli teorici, con altre metodologie e prospettive disciplinari. Tra aperture incondizionate e chiusure pregiudiziali, pochi hanno dimostrato interesse a un confronto critico con la varietà di stimoli provenienti non tanto dalla musicologia “culturalmente orientata”, che quelle istanze ha filtrato in modo insoddisfacente, quanto direttamente dalle altre discipline convocate.
Sulla base di tali considerazioni ho inteso sondare il potenziale della ricerca interdisciplinare in direzione di un riorientamento degli studi musicali. Ho dunque intrapreso un impegnativo dialogo con gli ambiti dei performance studies e dei media studies, che ho finito per considerare, richiamando McLuhan, come le “estensioni” di una musicologia storica che, analogamente all’etnomusicologia, si spinga ad attivare sinergie con le altre discipline in vista di un sostanziale rafforzamento. Se condotto in modo radicale, il confronto interdisciplinare diventa infatti un’occasione preziosa per mettere alla prova la tenuta di assunti che all’interno di una disciplina difficilmente vengono tematizzati e discussi, perché ritenuti autoevidenti. La completa disponibilità a mettere in discussione i propri assunti è dunque cruciale per attivare un confronto metateorico che consenta di creare un’interfaccia irriducibile tanto alle singole discipline quanto alla loro somma, in vista di un’integrazione.
Per misurare le ricadute concrete di questo tipo di confronto, porterò due esempi che mettono in luce come la creazione di ponti trasformi entrambe le sponde disciplinari anziché semplicemente collegarle. Il primo esempio riguarda il ruolo del testo nell’approccio alla performance musicale. L’assimilazione della prospettiva dei performance studies mi ha permesso, in questo caso, di proporre un modello di testualità che tiene conto dei limiti rilevati da quella disciplina tanto nella musicologia storica quanto in quella culturalmente orientata; al tempo stesso, la mia formazione musicologica storica mi ha permesso di cogliere alcuni limiti dei performance studies, che tendono a mettere al bando la dimensione del testo per consuetudine disciplinare, e di proporre una riflessione condivisibile a partire dai loro assunti. Il dialogo che ho potuto sostenere con Philip Auslander è stato in tal senso illuminante.
Il secondo esempio riguarda la ripresa di teorie sviluppate nei media studies contemporanei. In questo caso ho proposto una rimodulazione del campo di relazioni tra testo, performance e media in musica, in modo da accantonare tentazioni essenzialiste che sono alla base di visioni gerarchizzanti collegate a interpretazioni dicotomiche delle forme di esperienza musicale. Desumo il modello della radical mediation da Richard Grusin, un confronto col quale sarebbe decisivo per una sua valida messa a punto.
Come nasce un passato che prima non c’è, il passato della musica? Può esserci passato senza una storia che lo racconta? Così si direbbe, se si considera che le prime storie della musica sono scritte nel corso del XVIII secolo, dopo due millenni di cultura musicale europea. Come ci si è arrivati? Perché solo nel XVIII secolo la musica scopre di avere una storia? Quale passato raccontano le storie settecentesche della musica? Quale concetto di musica e di storiografia le informa? È un percorso in due puntate e due attori.
I. L’Histoire de la musique et de ses effets, depuis son origine jusq’à present (1715) di Jacques Bonnet.
Scorrendo l’Indice delle materie di questa storia di oltre 500 pagine si ha la sensazione di trovarsi gettati nella ‘piazza universale’ della musica, tra leggende e curiosità fini a se stesse: si fatica a dare senso a questo ‘mercatino dell’usato’. Eppure quella di Bonnet è la prima storia della musica europea. Quale idea di storiografia la giustifica? Quale modello narrativo imita?
II. La Storia della musica (3 voll., 1757-1781) di padre Martini
I tre tomi della Storia di padre Martini narrano la musica antica: Ebrei Egizi Caldei (t. I), Greci (t. II e III).
Quasi metà delle pagine dei tre volumi comprende sette dissertazioni che discutono oggetti estrapolati dalla narrazione storica.
Che rapporto hanno questi scritti accademici con gli eventi storici narrati? Quale idea della musica accorda la narrazione storica e la ‘dimostrazione’ scientifica? Cos’è ‘storia della musica’ per padre Martini?
Che ruolo ha avuto la scrittura nella genesi e diffusione di composizioni che per la prima volta hanno accostato suoni prodotti da musicisti davanti ad un pubblico a suoni registrati su nastro magnetico e riprodotti da altoparlanti? Quali limiti e potenzialità sono emerse nel comporre per un ensemble elettroacustico nella sua fase aurorale? Quali funzioni e forme ha assunto la scrittura nel processo creativo di musica per un genere musicale intrinsecamente ibrido?
Nel corso della Conversazione si comincerà a rispondere a queste domande prendendo in esame alcuni dei primi tentativi di musica mista a partire dal 1948 alla luce di tre ‘scene di scrittura’, intese come fenomeni che permettono di focalizzare le sfide compositive che i compositori si sono trovati ad affrontare nel tentativo di mettere per scritto una realtà sonora nuova.
Processo di ibridazione tra vecchie e nuove operatività del comporre
Esplorando il processo creativo di ‘Musica su due dimensioni’ (1952) di Bruno Maderna si esamina il biunivoco processo di ibridazione tra modalità compositive proprie del comporre su carta, per strumenti tradizionali, e un’operatività influenzata dal contatto diretto con la materia sonora in studio.
Un’unica partitura definitiva: o non sufficiente o completamente assente
Prendendo in esame ‘Still Point’ (1948) di Daphne Oram si rifletterà sulla difficoltà della compositrice di dare una forma scritta definitiva al lavoro elettroacustico e sulla necessità di una edizione critica postuma. Allo stesso tempo si citeranno casi in cui, al contrario, sono state prodotte diverse versioni quasi definitive, mai soddisfacenti per il compositore come in ‘Différences’ (1958-59) di Luciano Berio oppure casi in cui sono state licenziate più partiture con funzioni diverse, come in ‘Kontakte’ (1958-60) di Karlheinz Stockhausen.
La questione della autorialità nel processo compositivo
Infine, si analizzerà la necessaria collaborazione nel processo compositivo tra compositore e tecnici del suono o interpreti, come per esempio il ruolo della cantante Carla Henius nel processo di messa a punto de ‘La fabbrica illuminata’ (1964) di Luigi Nono, fondamentale anche e soprattutto nel tentativo di dare una convincente forma scritta al lavoro.
Le fonti primarie relative alle composizioni citate – conservate presso la Fondazione Paul Sacher di Basilea, l’Archivio Luigi Nono e la Daphne Oram Collection alla Goldsmiths University of London – sono state analizzate attraverso un duplice approccio teorico e metodologico, rifacendosi da una parte ai più recenti studi musicologici sull’analisi dei documenti manoscritti (Friedemann Sallis; William Kinderman, Bernhard R. Appel), dall’altra a riflessioni filosofiche sulla scrittura, indagata non in relazione a un sistema linguistico di riferimento (in senso logocentrico), bensì nei meno evidenti aspetti materiali, figurativi e funzionali (Sybille Krämer).
Tema della conversazione è il pensiero musicale del filosofo spagnolo Eugenio Trías (1942-2013), tra i più importanti filosofi europei a cavallo fra XX e XXI secolo. Nei suoi scritti, Trías struttura una filosofia solida e coerente, fondata sul concetto di limite, vale a dire la frontiera tra quello che ci appare fenomenologicamente e quello che resiste a manifestarsi ma che, in un certo modo, lo sostenta. In coerenza con questo pensiero filosofico, Trías considera l’essere umano un abitante naturale del limite, un ser nel limite, con tutte le contraddizioni intrinseche che ciò comporta. Curiosamente, Trías, morto pochi anni fa, ha dedicato i suoi ultimi libri alla musica, El canto de las sirenas (2007) e La imaginación sonora (2010), diventando così uno dei pochi filosofi continentali interessati pienamente al pensiero musicale. Nella musica, Trías riconosce una manifestazione artistica privilegiata per la conoscenza il limite: la sua ampia e profonda traiettoria si chiude annunciando quella che lui chiama la svolta musicale per la filosofia: un approccio alla filosofia a partire della conoscenza trascendentale che può dischiudere la musica.
Sin dall’era del muto, la critica cinematografica di lingua tedesca pose a tema il connubio fra musica e cinema. Compositori, musicologi, filosofi, teorici del cinema contribuirono a una vivace discussione intorno alle caratteristiche e alla funzione della componente musicale nelle proiezioni cinematografiche, con un ampio spettro di argomentazioni e punti di vista. La critica giornalistica dibatté innumerevoli questioni di natura estetica, teoretica e compositiva: dagli stili di composizione alle tecniche di direzione, dalle scelte di organico alle peculiarità musicali dei generi cinematografici. Non mancarono riflessioni sulle relazioni estetiche fra l’arte musicale e il medium cinematografico in quanto tale, sulla loro convergenza o separazione, e persino sulle loro “affinità elettive”.
In gran parte, questo dibattito ebbe luogo su periodici di cinema (Der Kinematograph, Film-Kurier, Reichsfilmblatt) e riviste di musicologia (Musiblätter des Anbruch, Melos, Der Auftakt) e titoli come «Intorno al problema della musica per film», «Problemi musicali del film» o «La soluzione del problema musicale» divennero molto comuni in questa discussione. La relazione delineerà i principali topoi che hanno forgiato il discorso giornalistico sulla musica per film dal 1912 al 1929, con uno focus particolare sulla dialettica fra preoccupazioni teorico-estetiche e questioni tecnico-compositive.
Da Novembre 2020 riprende l’appuntamento con le Conversazioni di Athena Musica, in modalità telematica, sulla piattaforma digitale Zoom e in diretta sul nostro canale Youtube.
17 novembre 2020, ore 17
Francesco Finocchiaro “Im Spiegel der Kritik”. Il giornalismo cinematografico come fonte del discorso estetico
15 dicembre 2020, ore 17
Anna Ficarella
Non guardare nei miei Lieder!
19 gennaio 2021, ore 17
Aurèlia Pessarrodona
La “svolta musicale” di Eugenio Trías: la musica nel limite
16 febbraio, ore 17
Elena Minetti
Come “scrivere” musica per nastro magnetico e strumenti dal vivo?
16 e 23 marzo, ore 17
Paolo Gozza
La nascita della storiografia musicale, da Bonnet-Bourdelot a padre Martini
6 aprile, ore 17
Alessandro Cecchi
Performance studies & Media studies: le estensioni della musicologia. Prospettive interdisciplinari per un possibile riorientamento degli studi musicali