Un convegno sull’Estetica musicale del XVIII secolo

Nelle giornate dell’11 e del 12 giugno 2018 si è svolto a Torino un convegno internazionale di studi organizzato da Alberto Rizzuti e da Maria Semi, entrambi afferenti al Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Torino. Il titolo del convegno è: 21th c. Challenges to the History of 18th c. Musical Aesthetics (il programma completo si legge all’indirizzo: https://xviiicenturymusicalaesthetics.wordpress.com/).

Le relazioni sono state complessivamente 16, compresa l’Introduzione di Maria Semi: 4 keynote lectures e 11 free papers, distribuite in quattro sessioni ciascuna per metà giornata. Le relazioni hanno discusso vari aspetti dell’estetica musicale del XVIII secolo, la discussione al termine di ogni sessione è stata molto vivace e il Convegno è stato organizzato con grande cura, che lascia immaginare una lunga e articolata messa a punto preliminare. I relatori sono affermati musicologi, come Martha Feldman (Chicago) e Philip V. Bohlman (Chicago), affiancati da giovani e meno giovani studiosi provenienti da Stati Uniti, Inghilterra, Germania, Svezia, Austria e Italia. Le libere relazioni sono state selezionate da un Comitato scientifico composto da Pietro Kobau, Alberto Rizzuti, Maria Semi e da chi scrive. Del Convegno non saranno pubblicati gli Atti ma una selezione delle relazioni opportunamente valutate.

 

Un precedente

È istruttivo che un convegno internazionale sull’Estetica musicale europea del Settecento abbia come sede Torino e la sua Università. Esattamente in questa Università è nata l’estetica musicale italiana, grazie al cinquantennio di studi condotti da Enrico Fubini. Dagli anni Cinquanta Fubini ha trovato a Torino l’ambiente culturale propizio al proprio programma di rinnovamento dell’estetica di Benedetto Croce in campo musicale: mi riferisco a quella originale stagione di ‘ritorno all’Illuminismo’ – il neo-illuminismo –, animata dalle personalità di Nicola Abbagnano, Norberto Bobbio, Pietro Rossi e Carlo Augusto Viano, fra altri, che ha mutato mentalità e metodi degli studi filosofici italiani fino ad allora dominati, nel bene e nel male, dallo storicismo e dall’idealismo crociani. Evidentemente la storia ama ripetersi, in forme magari diverse, e non solo nei luoghi; anche il Convegno di cui parliamo ha voluto trarre profitto dal rinnovamento della storiografia sull’Illuminismo degli ultimi trenta-quarant’anni: la nuova parola d’ordine è, in sintonia col XXI secolo, Illuminismo radicale.

Cercherò ora di spiegare quali siano, nell’idea dei promotori, le sfide del XXI secolo alla storia dell’estetica musicale del XVIII secolo e quale seguito abbia avuto l’idea ispiratrice nelle diverse relazioni.

 

L’idea

Nell’Introduzione Maria Semi chiarisce che il convegno è stato pensato per relativizzare il “lato egemone” delle attuali storie dell’estetica musicale del XVIII secolo e per dilatarne le frontiere disciplinari. Queste storie narrano il lato “egemone”, “normativo”, dell’estetica musicale del Settecento. Il lato egemone è lo studio dell’estetica, musicale e non, come filosofia dell’arte e teoria filosofica – come discorso filosofico di pochi letterati europei di razza bianca (“the (written) thoughts of mainly European literate white men”: Introduzione, p. 2). Per riequilibrare questo modello storiografico egemone Maria Semi auspica la narrazione di “altre estetiche … subordinate”. Si tratta di “estetica diffusa”, “senza pedigree”, espressione di quei ceti della società borghese del Settecento e di culture extra-europee sconfitte nell’hegeliana lotta per il riconoscimento. Per questa ridefinizione ‘radicale’, Semi propone di assumere l’‘estetica’ nel significato di “mondo della sensazione ampiamente inteso,” allo scopo di radicarla nel suo terreno “di genere, politico, sociale ed economico” (p. 3):

l’idea del convegno è allargare il più possibile il campo dell’estetica musicale del XVIII secolo, in modo che i confini disciplinari ne risultino sfuocati, nell’estremo tentativo di afferrare tutti gli elementi possibili dei molteplici universi della sensazione del  diciottesimo secolo, globali e locali.”  (p. 5).

Le dichiarazioni di principio, ispirate agli studi sull’Illuminismo dell’ultimo quarantennio, sono affiancate nell’Introduzione dall’esame di alcune specifiche prospettive estetiche del XXI secolo, ritenute utili per modificare e ampliare l’immagine egemone, filosofica, dell’estetica musicale del XVIII secolo come viene raccontata dalle storie. La prima prospettiva è definita dagli studi di Illuminismo post-coloniale. L’enfasi cade sulle categorie di genere razza nazione, cui si aggiunge il concetto geo-politico di “contact-zones” – luoghi geografici, confini dell’impero –, spazi di diffuse pratiche trans-culturali in grado di “offrire un ricco materiale all’analisi estetica, in quanto illuminano mondi dove concetti estetici familiari ma sensibilmente modificati sono ampiamente all’opera.” (Ivi, pp. 3-4). Una seconda prospettiva estetica operante nel XXI secolo, ritenuta utile per riequilibrare il campo dell’estetica musicale del XVIII secolo, è la “filosofia delle atmosfere” di Gernot Böhme, fautore di un’estetica interessata “alle proprietà attraverso le quali un oggetto s’irradia nello spazio”, non “alle proprietà che la cosa possiede.” (p. 4). È lo “scarto dalla considerazione della musica come arte che si svolge nel tempo, all’idea della musica come arte che si svolge nello spazio,” in continuità coi “sound studies,” gli attuali studi di estetica musicale ecologica. La terza e ultima prospettiva estetica che il XXI secolo potrebbe utilmente prestare al rinnovamento degli studi di estetica musicale settecentesca sono per Maria Semi le ricerche sulle categorie estetiche deboli: pazzesco (‘zany’), interessante, carino (‘cute’), utili a comprendere come il concetto di estetica si sia modificato “nel mondo performativo, saturo d’informazioni e webbizzato, infine ipermercificato del tardo capitalismo.” (p. 5) Di qui l’interrogativo:

Teorie specificamente pensate per comprendere i fenomeni estetici nel tardo mondo capitalistico potrebbero essere utili nell’analisi di alcuni aspetti dei fenomeni estetici alle origini del capitalismo? (Introduzione, p. 5)

L’Introduzione termina con l’analisi del dipinto ‘musicale’ di William Hogarth The Enraged musician (1741), icona del convegno. In breve, il musico arrabbiato del dipinto, disturbato dal guazzabuglio assordante dei suoni e dei rumori della piazza, è, nella logica del discorso, l’immagine dell’estetica musicale egemone, chiusa nell’angusto perimetro della propria fortezza autistica; le multiformi sonorità del mondo nel rimanente dipinto (il 90% del totale) sono l’equivalente dell’estetica musicale “diffusa”, qualcuno direbbe ‘dal basso’, degli universi della sensazione – voce e sonorità dei ‘perdenti’ emarginati dall’estetica filosofica egemone della quale l’enraged musician è la caricatura.

 

Commento

Prima di riferire sulle relazioni al Convegno vorrei anticipare un breve commento. A mio parere sono presenti nell’Introduzione alcune difficoltà, il cui esame spero possa essere utile per problematizzare l’oggetto d’indagine, i.e. l’estetica musicale del XVIII secolo. La prima difficoltà riguarda il concetto di estetica come mondo della sensazione in senso ampio (p. 3), contrapposto al concetto di estetica come discorso filosofico (p. 2). Si tratta a mio parere di una opposizione ideologica, non fondata su ragioni storico-culturali. Nella tradizione culturale europea l’Estetica è la riflessione su una particolare forma d’esperienza, che chiamerei esperienza di valori: di bellezza armonia affettività sensibilità, dove i sensi esterni sono un veicolo e una stazione della mente pensante. La contrapposizione tra sensazione e pensiero, filosofico o altro, non ha quindi una giustificazione culturale in sede di estetica; e che si tratti a mio parere d’un assunto ideologico trova conferma a livello linguistico nelle categorie interpretative utilizzate: ‘egemonico’ – ‘normativo’ vs.‘subordinato’ – perdente “nella lotta per il riconoscimento sociale”, il tutto rapportato ai concetti storico-sociologici di “tardo capitalismo”, “origini del capitalismo” (p. 5), che giustificherebbero la continuità di temi dell’estetica dal XVIII al XXI secolo. Sulla contrapposizione tra estetica come mondo della sensazione e estetica filosofica tornerò nella conclusione di questa notizia. La seconda difficoltà presente nell’Introduzione riguarda lo slittamento del discorso dal piano della storiografia, historia rerum gestarum, al piano dell’estetica musicale settecentesca ‘com’è veramente stata’, le res gestae. I due piani del discorso si confondono e a volte sovrappongono, e non aiutano a capire dov’è l’estetica musicale del XVIII secolo aldilà delle sue criticabili ricostruzioni storiche. Ne trovo conferma nel fatto che l’Introduzione non dichiara o commenta nessuno degli aspetti della formazione storica chiamata ‘estetica musicale’ del XVIII secolo: la sua genesi, le sue fonti, i generi letterari, i caratteri specifici che la distinguono dalle altre culture musicali, il lessico e i concetti che traducono le esperienze sensibili in pensieri e discorsi della mente egemone. Nell’Introduzione l’estetica musicale del XVIII secolo sembra lo specchio della storiografia musicale del XX e del XXI secolo, che non ha saputo rinnovarsi nelle rigeneranti acque dell’Illuminismo radicale.

 

Le relazioni 1

Prenderò ora in esame le relazioni, iniziando dalle relazioni di base all’inizio d’ogni sessione (mi scuso col Lettore per l’esclusione da questa nota della conferenza iniziale di Philip Bohlman che non ho potuto ascoltare insieme alle comunicazioni libere della prima mattinata (cfr. l’abstract nel programma). Le discuterò in se stesse e in rapporto all’idea del Convegno esposta nelle pagine che precedono.

All in the mind’: Eighteenth Century Opera and the Idea of Psychological depth, letta da Suzanne Aspden (Oxford), riporta la mente alla concreta vita musicale del XVIII secolo, all’opera, all’analisi della psicologia degli attori in scena. Il ragionamento ascoltato a Torino compie tuttavia fin da subito una sensibile virata: la chiave di lettura della vita interiore rappresentata nel teatro musicale del XVIII secolo sono per Aspden le storie della scienza e della filosofia della fine del XX e dell’inizio del XXI secolo (cognitivismo, teorie della conoscenza). Queste scienze offrirebbero gli strumenti per correggere la cecità delle narrazioni musicali del teatro d’opera del XVIII secolo, dove la ‘psicologia’ dei personaggi è modellata sul melodramma ottocentesco. La mia impressione è che in questo caso, ma non è l’unico, il ‘dirottamento’ sul XXI secolo abbia nuociuto alla coesione del discorso, alla sua chiarezza. Già l’espressione Psychological depth sembrerebbe più consona al melodramma romantico che all’opera in musica settecentesca. A parte questo, l’ascoltatore ha l’impressione di essere condotto di qua e di là tra XXI e XVIII secolo senza afferrare come propriamente il Settecento europeo abbia rappresentato e intonato la  ‘vita interiore’. L’accenno a Descartes e a Locke non è servito a equilibrare un discorso che, senza scomodare la ‘storia delle idee’ o le scienze cognitive, avrebbe trovato nella finezza psicologica dei libretti di Metastasio, nella sua umanissima corrispondenza, nella produzione poetica e letteraria coeva, nei dibattiti sul linguaggio e su quella icona dell’interiorità che è la voce (vedi Salazar, Le culte de la voix au XVIIe siècle: Formes esthétiques de la parole à l’âge de l’imprimé, 1995), infine nelle scienze della vita – in una parola, nella cultura europea del XVIII secolo – le fonti appropriate per accedere all’immagine dell’interiorità e del sè nel teatro d’opera del Settecento, che nella relazione di Aspden rimane inattingibile. E poi, francamente, qual mai Psychological depth c’è nell’opera del XVIII, così lontana dagli abissi psicologici dei drammi musicali ottocenteschi?

Anche la key-note lecturedi Tomas McAuley (Cambridge), Hearing the Enlightenment: Musical Affects and Mechanical Philosophy in England and Scotland, 1663-1749, ha creato non poche perplessità nello scrivente. Stavolta la colpa non è del XXI secolo ma, a mio parere, della struttura storico-concettuale del discorso vertente sulla relazione tra filosofia meccanicistica e affetti musicali nel XVII e XVIII secolo. McAuley concede troppo alla filosofia meccanicistica, sia sul versante concettuale che storico-culturale. Concettualmente è forse utile ricordare che la ‘via’ del filosofo naturale all’affetto musicale non è più diretta o immediata della via indicata dal teorico della retorica musicale, come McAuley sembra immaginare. Per diventare ‘affetto’ le vibrazioni sonore dello ‘scienziato’ o del medico moderno (gli scrittori inglesi citati sono fonti note: Robert Boyle, 1663, Richard Browne, 1729, Richard Brocklesby, 1749) devono fare ancora un lungo percorso dopo l’impatto sul sistema nervoso: gli urti meccanici delle parti in contatto devono diventare alterazioni psichiche. L’‘affetto musicale’ è una ricca e complessa mediazione che comprende tutto l’uomo, senso esterno e senso interno, nervi e ‘spirito’, meccanica quantitativa e retorica qualitativa, sensibilità e immaginazione, corpo e mente, e la musica sta alla convergenza dei saperi che concertano questa costruzione. Senza la consapevolezza delle sottili modulazioni culturali che governano il problema del potere emozionale della musica lo storico rischia di assumere una parte per il tutto, o meglio, di attribuire alla propria parte un ruolo non adeguato alla realtà storico-culturale. Sul piano storico sarà utile ricordare che la filosofia e la medicina meccanicistica perdono rilevanza scientifica nel corso del XVIII secolo, che nella spiegazione dei fenomeni ‘psicologici’ si orienta decisamente verso le scienze biologiche. Per queste ragioni diventa problematico argomentare quale sia l’apporto della scienza musicale moderna alla costruzione dell’estetica o del pensiero musicale del Settecento sulla base delle premesse enunciate da McAuley.

La closing key-notedi Martha Feldman (Chicago) nel pomeriggio del 12 giugno ha come titolo Castrato / Trans*: Thoughts from the 21thCentury. La relazione vuole suggerire che “il paradigma trasgender può aiutare a illuminare l’ontologia e l’estetica del castrato” (dall’abstract). Il ponte lanciato da Feldman tra i trans* del XXI e i castrati del XVIII secolo è la categoria sociologica fugitivity, l’irregolare, ciò che sta in un altrove non normativo, sfuggente; ha affinità con un toposdiffuso del XXI secolo, unlimited, l’al di là del confine delle realtà virtuali.Non è chiaro dove stia e quali siano i caratteri specifici dell’“ontologia e dell’estetica del castrato” desunta dal paradigma descritto. La relazione di Feldman non si sbilancia in questa direzione, e si ha piuttosto l’impressione di un ‘esperimento mentale’, una inseminazione storiografica in vitro che sfugge le possibili limitazioni del discorso storico e non aggiunge granché all’“ontologia” del castrato e a quello che ancora vorremmo conoscere della sua “estetica”. Vorrei inoltre notare di passaggio che sarebbe forse stato utile in una lettura conclusiva il bilancio sulle relazioni delle due giornate, sui risultati conseguiti nel convegno e su quanto ancora resti da fare per ripensare e aggiornare il campo di studi di estetica musicale del XVIII secolo. Ma non era questo il caso…

 

Le relazioni 2

Se le relazioni d’apertura e finale ascoltate sono apparse deludenti allo storico dell’estetica musicale del Settecento, le relazioni libere hanno invece dato un contributo significativo, per quanto circoscritto, alla discussione. Penso alla relazione di Jessica Gabriel Peritz (Chicago), Rethinking the Aesthetics of Voice at the End of the “Century of Women” che associa le culture della sensibilità e della soggettività femminili diffuse in periodici, pamphlets e altri scritti settecenteschi alla letteratura femminista del XX e XXI secolo per focalizzare aspetti trascurati dell’estetica della voce nel XVIII secolo. Penso ancora, nella sessione pomeridiana dell’11 giugno, alle relazioni di Anna Parkitna (Stony Brook, NY), Opera in the Reformist Agenda of the Polish Enlightenment, sul ruolo dell’opera nella formazione dell’opinione pubblica polacca settecentesca, e di Carlo Lanfossi (University of Pennsylvania), Borrowing as Listening Inscrption: Händel and the Pasticci in London, incentrato sulle abitudini degli ascoltatori londinesi modellate dalla pratica del ‘pasticcio’ e sulle condizioni materiali di circolazione della musica nella prima metà del Settecento. Dopo la relazione d’apertura di Tomas McAuley di cui abbiamo riferito, la mattinata del 12 luglio ha visto tre libere relazioni. La prima è stata di Anne Holzmüller (Albert-Ludwigs-Universität Freiburg), Musical Immersion: a New Methodological Approach to the Late Eighteenth-Century Aesthetics, seguita dalla relazione di Olga Sánchez-Kisielewska (Northwestern University-University of Chicago), Reappraising the Role of Religion in the Musical Aesthetics of the Late Eighteenth Century, infine da quella di Benedikt Leßmann (Wien), When Imitation Became Nachhmung: Translation as Cultural Transfer in German Music Aesthetics of the XVIIIth Century. Holzmüller estende il concetto di ‘immersione’, ‘fenomenalità immersiva’, attualmente in uso nei contesti virtuali, alle narrazioni di esperienze d’ascolto di noti scrittori tedeschi tra 1770 e 1790: J.W. Heinse, Jean Paul o J.H. Wackenroder. Secondo Holzmüller “il vantaggio del contemporaneo concetto di ‘immersione’ derivante da contesti altamente mediati (sic!) risiede nel suo potenziale di descrizione di modi di esperienza che alludono all’estasi religiosa e alla trascendenza…” (dall’abstract). Effettivamente gli scrittori di lingua tedesca ricordati hanno certo avuto a disposizione un’ampia letteratura mistica medievale di esperienze d’ascolto che annullano il sé e lo conducono in paradiso con suoni e musica. Olga Sánchez-Kisielewska ha un po’ ribaltato la sfida del XXI al XVIII secolo, rivalutando i concetti di devozione, spiritualità e trascendenza del tardo Settecento tedesco nei tre momenti musicali dell’ode sacra, dell’inno e del pastoralismo musicale associato al simbolismo religioso attribuito alla natura nelle opere di Klopstock, Schiller e Goethe. Ne viene argomentato “che la crisi della musica da chiesa non ha diminuito [nel secolo dei Lumi] la rilevanza del sentimento religioso nell’approccio di compositori ed ascoltatori dentro e fuori la chiesa.” (dall’abstract). Nel proprio intervento Leßmann ha chiarito come le numerose traduzioni di saggi e articoli di argomento musicale dal francese e dall’inglese in lingua tedesca nel corso del XVIII secolo possano giovarsi della prospettiva degli studi sulla traduzione del XXI secolo.

Il pomeriggio del 12 giugno programmava tre libere relazioni e la relazione conclusiva di Martha Feldman. Katherine Walker (Hobart and William Smith College, New York) ha discusso in maniera ordinata ma a mio avviso scolastica, senza grande originalità, un tema fondamentale dell’estetica settecentesca, Taste, Geschmack, Gusto, Goût: Shifting Connotations of Taste in Eighteenth-Century Musical Thought. Nathan John Martin (University of Michigan) ha affrontato l’argomento del ‘materialismo’ nelle teorie di musicali di Rameau attraverso l’analisi di alcuni testi di filosofi francesi coevi, come Rousseau, Diderot, Condillac e Briseux (Rameau Matérialiste?). Il quadro storico è risultato articolato e, per l’ampiezza del discorso, forse bisognoso di aggiustamenti e rettifiche, in particolare sulla posizione di Diderot a partire dal Rêve de D’Alemberte dal Neveu de Rameau. Infine Giorgia Malagò (Padova), l’unica studiosa italiana presente al convegno, ha portato il discorso nell’Italia del Settecento, discutendo Aristotelianism, Platonism, and Empiricism in Giuseppe Tartini’s Correspondance. Nel corso della discussione, un quesito del pubblico sull’ostinata volontà di Tartini di dimostrare il fondamento scientifico e metafisico della ‘scoperta’ del ‘terzo suono’, documentata nella Corrispondenza studiata da Magalò, mi ha fatto pensare alla presenza attiva della tradizione musicale specultiva: è precisamente la millenaria tradizione musicale europea di cui si sente parte a suggerire l’assillo metafisico di Tartini, come lo fu per Zarlino nel XVI secolo o, per rimanere nel XVIII secolo, per Jean-Philippe Rameau a Parigi.

 

Conclusione

Vorrei proporre ora alcune considerazioni conclusive in qualità di ‘osservatore esterno’ al convegno. Il problema a mio parere è: quale rapporto vogliamo istituire tra presente e passato? Come lo storico sta dentro la tradizione culturale che studia? Nel De nostri temporis studiorum ratione. Sul metodo degli studi del nostro tempo (a cura di Andrea Suggi, con un saggio di Manuela Sanna, Pisa, Edizioni ETS, 2010) Giambattista Vico risponde cercando un metodo capace di soppesare vantaggi e svantaggi delle due culture a confronto nel XVIII secolo, la cultura degli Antichi e la cultura dei Moderni:

affinché, memori degli svantaggi dell’antico, sopportiate di buon grado gli svantaggi del nostro metodo di studi che non possono essere evitati. (p. 27)

Per Vico il metodo cercato è, banalmente, disporsi mentalmente a cogliere le lacune degli Antichi e dei Moderni dopo averli collocati sullo stesso piano d’uguaglianza, e questo per salvaguardare il sapere. A me pare che questa attitudine metodologica non sia nelle corde del convegno che stiamo discutendo. Il convegno mi è parso sbilanciato sul XXI secolo. Non si tratta di azzerare il presente – anche se inevitabilmente sono tra quelli che “temono nozioni radicalmente presentiste della storia” (Feldman) – ma di pensarlo in una equilibrata relazione col passato che studia. Il convegno 21th c. Challenges to the History of 18th c. Musical Aesthetics inscena una ‘sfida’ (challenge), e in una ‘sfida’ i duellanti sono almeno due. Sfidando la “storia dell’estetica del XVIII secolo” in vista  di una ‘riparazione’, il XXI secolo sfida una propria parte, ossia la storiografia del XX e del XXI secoloperché è difficile parlare di storia dell’estetica musicale prima della sua sistemazione tardo-ottocentesca. È una sfida interna, giocata, lo abbiamo visto, su due opposti concetti di ‘estetica’: da una parte l’estetica normativa, filosofica, delle storiedell’estetica, dall’altra l’estetica come mondo della sensazione, come mondo della vita, suggerita dalla storiografia dell’Illuminsimo radicale del XXI secolo. Nell’uno e nell’altro caso, in questa sfida sui massimi sistemi è proprio lo studio dell’estetica musicale del XVIII secolo a soffrirne insieme alla possibilità di ripensare e rettificare le sue narrazioni storiche. Le cose più interessanti per lo storico dell’estetica musicale del Settecento sono state in questo convegno le relazioni di chi ha voluto correggere o riparare le afasie del XXI secolo grazie allo studio puntuale di aspetti specifici dell’estetica del Settecento ignorate dalle storie, senza proiezioni “radicalmente presentiste”. Parlando di una di queste relazioni, ho scritto che Sánchez-Kisielewska ha un po’ ribaltato i termini della sfida riparatrice, semplicemente rivolgendo la propria attenzione a determinate categorie estetiche settecentesche nei propri definiti contesti storici, ignorate dalla storiografia novecentesca. Forse  potremmo riprendere il discorso sull’estetica musicale del XVIII secolo in un nuovo convegno, stavolta col titolo: 18th c. Challenges to the 21th c. Musical Aesthetics.

Paolo Gozza