Vania Dal Maso, Teoria e pratica della musica italiana del Rinascimento, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2017, pp. xxxiii–392 (Teorie musicali, 3).
Questo libro ha l’intento di colmare uno iato, di articolare un dialogo, di ricomporre un’armonica fecondante intersezione di teoria e pratica che faccia emergere la peculiare sonorità del mondo musicale del Rinascimento, ancora, almeno in parte, da riscoprire. Vania Dal Maso, nell’introduzione, giustamente definisce sia le modalità d’uso, sia il potenziale pubblico a cui il libro si rivolge: lo studioso come l’ascoltatore, l’interprete come lo studente. La struttura del lavoro esplicita il lodevole intento di ripercorrere l’itinerario pedagogico di quel tempo, un itinerario oggi pressoché disapplicato, sebbene scuole e dipartimenti di musica antica abbiano affollato, ormai da diversi lustri, la penisola.
Il primo capitolo è dedicato ad esplorare il concetto di musico nel contesto dell’ambiente culturale del XVI secolo, e, insieme, le modalità attraverso cui si compie la trasmissione della conoscenza. Vengono ripercorse le peculiarità delle fonti didattiche, la natura e la strutturazione interna del concetto di musica — attraverso l’analisi della laus musicae, genere fondante la disciplina —, e la teorizzazione dei concetti di consonanza e di dissonanza. Nel secondo capitolo, è l’universo della lettura e della scrittura della musica ad essere evocato con rara completezza e puntuale riscontro con le fonti. Non è facile dar conto della ricchezza di questo capitolo in cui l’elaborazione di un sistema grafico che consente alla musica di fissarsi nella scrittura — esorcizzando l’intrinseca fragilità del suono destinato subitaneamente a morire, come ci ricorda Leonardo da Vinci — è sviscerato in dettaglio: dalla definizione delle chiavi agli esacordi, dal monocordo alla solmisazione, fino alla trattazione della musica ficta.
Il terzo capitolo affronta la questione cruciale della definizione del tempo della musica, della possibilità di ‘descrivere’ il tempo fissandolo in scrittura: è il complesso paradigma di significati e di segni che ruotano intorno al concetto di mensura, segni e significati delucidati con profondità e compiutezza. La lettura del capitolo sollecita il lettore non solo ad appropriarsi delle peculiarità della notazione mensurale bianca, ma anche ad utilizzare direttamente le fonti nella sua attività di studioso o di interprete: troppo spesso, ancor oggi, questa musica viene fruita unicamente attraverso la mediazione di una trascrizione moderna evitando il contatto, ineludibile, con gli originali. Il capitolo seguente è dedicato al concetto di proporzione, che abbraccia sia la dimensione intervallare, sia la dimensione mensurale. L’autrice, giustamente, fa risalire tale concetto all’ascendenza quadriviale della disciplina, ma, al contempo, ne sottolinea l’operatività nella definizione della struttura matematica soggiacente al concetto di consonanza e, soprattutto, nell’organizzazione di quelle relazioni, cruciali per l’identità stessa di questa musica, tra differenti tipologie di tactus non sempre facili da comprendere e da tradurre in scelte coerenti di prassi esecutiva.
Il quinto capitolo affronta il labirinto della modalità, aspetto particolarmente complesso, ambiguo, sfuggente e contraddittorio, circa il quale i teorici stessi testimoniano posizioni divergenti se non, talora, antitetiche. Dato tale contesto, la chiarezza perseguita dall’autrice mi sembra particolarmente encomiabile, anche perché conseguita non certo a scapito della profondità e della completezza della trattazione. Il capitolo che segue è il naturale complemento del precedente. Qui, infatti, si affronta la ‘lingua madre’ della musica occidentale, nella sua declinazione più rigorosa e, al contempo, più didatticamente efficace: il contrappunto a due voci. Anche in questo caso, risulta particolarmente utile ricostruirne la sintassi attraverso una accurata disamina della trattatistica coeva, e non mediante anacronistiche superfetazioni utilizzate, ancor oggi, per deformarne il dettato fino ad arrivare ad una vera e propria re-invenzione moderna del contrappunto rinascimentale: immergersi nella lettura e nella discussione delle fonti proposte può assolvere, così, ad una ‘funzione liberatoria’ consentendo di accostarsi a tale linguaggio prescindendo in toto da quelle artificiali tassonomie che ne occultano tanto la lettera, quanto lo spirito.
Il settimo capitolo si occupa di affrontare la modalità di accomodare le parole alle note, una competenza essenziale da acquisire sia per il compositore, sia per il cantore, e di delucidare segni particolari, quali ad esempio le ligaturae, raggruppamenti di due o più figure, che, idealmente, derivano dai neumi del cantus planus. Infine, nell’ottavo capitolo si ricostruiscono i compiti professionali a cui il musico, il cantore, lo strumentista e il maestro di cappella devono assolvere nei loro uffici, riflettendo anche sulle diverse peculiarità dei supporti dei materiali a stampa nei diversi formati del libro-parte, del libro corale e dell’intavolatura, e, infine, su quegli elementi ‘sovra-segmentali’, come le diminuzioni, da prodursi oralmente, ma talora notate per finalità didattiche, che ci restituiscono un concetto di esecuzione il quale esorbita dalla riproduzione dell’esistente, per aprirsi alla modificazione percettiva di quanto consegnatosi alla scrittura.
Alla fine della lettura si delinea un quadro veramente esauriente della teoria e della pratica della musica italiana del Rinascimento e, soprattutto, si acquisiscono gli strumenti per intavolare un fruttuoso dialogo tra queste due dimensioni, che stimoli studiosi e studenti, specialmente nell’attività didattica, ad applicare e ripercorrere, con più rigore metodologico, quel processo formativo a cui il musico di quel tempo si sottoponeva, un processo formativo che si costituisce ad itinerarium mentis che, al contempo, struttura tanto il concepire, quanto l’agire.
Stefano Lorenzetti