Robert Schumann filosofo (Recensione)

Laura Abbatino, Robert Schumann filosofo. L’arte poetica romantica, Mimesis, Milano-Udine, 2016

Il titolo di questo libro suona quasi provocatorio. Robert Schumann era un filosofo? È arduo sostenere questa tesi. Schumann era un compositore. Un grande compositore, secondo l’opinione corrente. Un musicista grande da suonare, mediocre da ascoltare, se vogliamo far nostro il parere di Roland Barthes. Schumann era sicuramente un uomo di cultura, se consideriamo l’ampiezza dei suoi interessi e delle sue letture. Era anche un critico di prima grandezza, impegnato in un’intensa attività pubblicistica. Ma dichiararlo un “filosofo” appare, sulle prime, un’audacia ingiustificata..

Vero è che Schumann aveva conseguito una laurea in filosofia. E non in un’università qualsiasi, ma nell’ateneo di Jena, che per molti anni era stata la capitale europea della filosofia, vedendo avvicendarsi nell’insegnamento personalità come Fichte, Schelling ed Hegel. Si trattava però, come è noto, di un titolo accademico non conseguito al termine di un regolare corso di studi, ma di una laurea honoris causaconferita su sua sollecitazione. Schumann vedeva in questo riconoscimento uno strumento da far valere nella controversia legale che lo opponeva a Friedrich Wieck, padre della futura moglie Clara, che contrastava strenuamente la loro unione. Il titolo, come mette in luce Laura Abbatino nella sua documentata ricostruzione, fu ottenuto grazie al benevolo appoggio del decano della facoltà filosofica, Ernst Christian Gottlieb Jens Reinhold, figlio del professor Karl Leonhard Reinhold che aveva inaugurato i fasti della filosofia a Jena. In assenza di vere e proprie pubblicazioni filosofiche, la laurea veniva concessa in considerazione degli scritti di estetica musicale, disciplina che, scriveva il relatore, “fa parte delle scienze filosofiche”. E indubbiamente in questa motivazione è contenuta una parte di verità, per estrinseche che siano le ragioni che muovono la vicenda della laurea jenense.

Basta però questo per dichiarare Robert Schumann un “filosofo”? In realtà dietro il titolo scelto dall’autrice si sviluppa un percorso che lo giustifica, inquadrandolo in una proposta metodologica della quale cercheremo di dar conto. Il volume si compone di quattro capitoli, dedicati rispettivamente a un inquadramento generale dei rapporti tra estetica e poetica, a un’ampia ricognizione delle teorie estetico-musicali da Kant a Schopenhauer, all’estetica di Schumann e infine alla poetica di Schumann.  Il secondo capitolo, pur essendo una sorta di premessa storica allo sviluppo del tema principale, ha un peso considerevole, e, vorrei aggiungere, una qualità degna di nota: non accade spesso di veder ripercorsi gli snodi dell’estetica musicale tra la fine del Settecento ed i primi decenni dell’Ottocento in termini così densi e informati. E, vorrei aggiungere, poco dipendenti dalle compilazioni storiche abitualmente consultate. Laura Abbatino intitola questo capitolo Musikästhetik. Teorie sulla musica. Il titolo si carica di un significato particolare nel confronto con quello assegnato al capitolo successivo: Musikerästhetik, L’estetica di Schumann. In questa duplice intitolazione possiamo scorgere la spina dorsale metodologica del volume ed iniziamo a cogliere la giustificazione della quasi sorprendente espressione Schumann filosofo.Come vi è un’estetica musicale degli “estetici”, dei filosofi in primise di altri studiosi che si sono occupati di musica senza praticare una professione musicale, così vi è una estetica dei musicisti, nata e sviluppatasi all’interno delle professioni musicali.

Una recensione è un dialogo: il recensore, nel confrontarsi con l’opera recensita, mette in campo non solo le proprie competenze, ma anche le proprie aspettative, le proprie prospettive, le proprie opzioni scientifiche, la propria storia intellettuale, le proprie predilezioni e magari le proprie infatuazioni e idiosincrasie. È in quest’ottica “soggettiva” che voglio sottolineare la mia convinta condivisione dell’assunto di fondo del libro. Scrive la Abbatino: “l’estetica musicale è soltanto unadelle forme di pensiero che hanno la musica per oggetto, un modo del discorso per molti versi avvantaggiato, ma statisticamente marginale. Forse alle volte addirittura impoverito, soprattutto nel passato più recente, quando le poetiche hanno di gran lunga anticipato il pensiero degli specialisti della riflessione. Comprendo come risulti quasi naturale da parte degli studiosi di formazione filosofica provare un certo istintivo sospetto per l’individuale, per il particolare che non si lascia immediatamente sussumere sotto concetti, per la posizione isolata che non sembra puntare diritto verso l’universale, per l’analisi concreta che non cerca la generalizzazione. Ma allo stesso tempo mi chiedo: non stiamo perdendo qualcosa? Credo proprio di sì” [p. 18-19]. Chiosando questa affermazione vorrei ricordare che Baumgarten, “fondatore” dell’estetica moderna (secondo la vulgata corrente), definiva la nuova disciplina “metafisica del bello”, ed era accusato da molti di averla concepita entro un orizzonte astrattamente speculativo. Eppure si domandava, ponendo con icastica brevità una questione di immensa rilevanza gnoseologica: “quid enim est abstractio, si iactura non est?”

La nostra rappresentazione della tradizione estetico-musicale in effetti è legata a filo doppio alla storiografia filosofica. La sua dorsale è costituita dalle opere di filosofi che più o meno ampiamente hanno accolto la musica nel loro orizzonte, mentre altre testimonianze del “sentire” e altre idee sullo stesso oggetto non hanno goduto di adeguata rappresentanza. Scritti di musicisti, saggi di critica musicale, trattati di teoria musicale solo marginalmente sono stati ritenuti parte di quel corpusche definiamo “estetica”. “La ricostruzione delle idee dei filosofi sulla musica” è “una strada già troppo battuta”, afferma la Abbatino, ma non è certamente tutto: “lo sguardo va ampliato e va riconsiderato il pregiudizio che la ritiene come il paradigma entro il quale vada sviluppata l’estetica musicale” [p. 19]. Si prospetta dunque l’esigenza di un riequilibrio tra le diverse tradizioni intellettuali che si incontrano nell’estetica della musica. Riequilibrio reso necessario non solo dall’esigenza di correggere la deformazione prospettica che porta a sovraesporre le fonti filosofiche, ma anche a contenere la spinta astrattiva e generalizzante propria del discorso filosofico a beneficio di testimonianze più dirette e immediate del sentire estetico. Tra queste, in primo luogo, le espressioni della Musikerästhetik, per riprendere la categoria che l’autrice pone al centro della sua rappresentazione. Baumgarten, nella critica dell’astrazione prima richiamata, sia pure in altro contesto (l’analisi della verità estetica in quanto separata dalla conoscenza intellettiva) paragonava il processo dell’astrazione a quello di uno scultore che vuol ricavare una sfera perfetta da un blocco irregolare di marmo, ma è costretto, in questa operazione, a sacrificare una parte considerevole del materiale, e dunque a subire una perdita.

È sullo sfondo di premesse del genere che prende forma l’analisi delle idee di Schumann, un’analisi che trova piena pertinenza solo in una storia dell’estetica musicale rimodellata in modo da lasciarsi alle spalle le limitazioni rilevate dall’autrice. Com’è noto il musicista ci ha lasciato un numero considerevole di scritti, molti dei quali pubblicati nella Neue Zeitschrift für Musik, da lui co-fondata nel 1834 e diretta fino al 1844. D’altra parte, come si ricorda nel libro, Schumann al suo tempo fu conosciuto più per gli scritti che per la musica, ed era una figura di rilievo nel panorama dell’intensissima attività critico-musicale tipica della cultura tedesca. La Abbatino vede nel lavoro critico di Schumann un impegno complementare a quello compositivo: a suo parere, infatti, le idee messe in campo nelle recensioni si ritrovano nei brani musicali, in un circolo che collega i due ambiti ben più strettamente di quanto avvenga in altri musicisti che più o meno occasionalmente si sono occupati di critica. Gli scritti di Schumann, oltre che al genere che correntemente definiamo “critica” musicale, sono ascrivibili a quello che si indica col termine “poetica”, vale a dire una riflessione sul “fare” artistico, dunque caratterizzata da una marcata proiezione operativa, e ciò rinsalda ulteriormente il legame tra idee e pratica musicale. Nessuno degli scritti schumanniani è elaborato in forma filosofica: rimangono ad essi estranei sia il lessico, sia la grammatica concettuale e argomentativa della filosofia, quantomeno nelle forme tipiche del pensiero tedesco coevo. Il progetto di un’estetica della musica, presumibilmente organizzata in un testo unitario, al quale sembra riferirsi una sua lettera giovanile, non ebbe seguito, e le idee di Schumann sono giunte a noi disseminate in vari scritti, alcuni dei quali pubblicati solo alla fine del ventesimo secolo. Nondimeno, sia pure in forma frammentaria e nell’involucro di un’espressione letteraria, quando non poetizzante, emerge una sostanza teorica. Il libro ricostruisce minuziosamente le letture che hanno nutrito gli interessi estetici di Schumann, dagli anni di formazione fino alla maturità, e le matrici delle sue idee, inclusa la filosofia classica tedesca, conosciuta attraverso la mediazione di Krüger, Kahlert, Hand, Weiße. L’autrice rileva come l’apporto formativo più consistente sia comunque offerto dai romantici, posto che il rapporto di Schumann con la filosofia non era di piena confidenza e la passione letteraria costituiva un nucleo ben più consistente del suo mondo intellettuale.

Segue un’analisi dei temi intorno ai quali si sviluppa, in forme spesso centrifughe e disseminate, la riflessione di Schumann: il genio, la musica a programma, l’idea della sostanza “poetica” della musica, il “carattere” come “spirito” del brano musicale, i fattori della creatività, ecc. Queste pagine rappresentano nello stesso tempo la parte precipua del libro, posto che in esse si tenta di inquadrare la “filosofia della musica” di Schumann, e quella più problematica, giacché la materia cui l’autrice si sforza di dar forma è refrattaria ad una organizzazione concettuale nitida e ben definita: è arduo mettere a fuoco un pensiero evanescente, poetizzante, proteso verso il mistero del “linguaggio dell’anima”. In effetti, quando la storia dell’estetica musicale si apre a testimonianze diverse da quelle radicate all’interno della tradizione filosofica deve abbandonare la tentazione di dare comunque un’organizzazione filosofica o similfilosofica ai contenuti, e tematizzare, come per se stesse rilevanti, la modalità in cui si manifestano questi altri tentativi di cogliere il senso della musica. Tentativi che possiamo definire legittimamente “filosofici”, in quanto scaturiti da un impegno intellettuale proteso al raggiungimento di fattori fondamentali, di una comprensione profonda della realtà musicale, ma che nello stesso tempo “filosofici” non sono poiché non seguono percorsi filosofici, non adottano un lessico, una tecnica argomentativa, o magari dimostrativa, di tipo filosofico. In altre parole, il riconoscimento di un territorio estetico-musicale esterno al perimetro della filosofia non può accompagnarsi ad un tipo di analisi che lo assimili all’orizzonte categoriale della filosofia tecnicamente e professionalmente intesa e ne riprenda i lemmi.  Per tale ragione leggiamo con particolare interesse gli ultimi paragrafi del libro, intitolati La musica come linguaggio dei segnie Schumann compositorenei quali vediamo il pensiero avvicinarsi sempre più alla pratica artistica e, guidati anche dagli esempi musicali che l’autrice ci propone, vediamo le idee del “filosofo” Schumann farsi contigue al pensiero compositivo, convergere verso i peculiari procedimenti del maestro e intrecciarsi alla cifra stilistica della sua opera.

Antonio Serravezza