I filosofi e la musica (Recensione)

Riccardo Martinelli, I filosofi e la musica, Bologna, il Mulino, 2012.

In queste righe il lettore troverà una recensione alquanto atipica. Infatti, dopo aver illustrato la struttura del libro e commentato la sua impostazione, presenterò una serie di riflessioni occasionate dalla lettura, ma autonome rispetto a questa.

Riccardo Martinelli, apprezzato autore di studi sul rapporto tra musica, filosofia e pensiero scientifico (ricordiamo tra gli altri Musica e natura. Filosofie del suono, Milano, 1999), propone in questo  lavoro una sintesi delle riflessioni sulla musica dei maggiori filosofi, dall’antichità ai nostri anni. Sintesi alquanto compatta, se si considera il terreno ricchissimo che rappresenta, ma efficace e ben organizzata. I titoli dei quattro capitoli (L’arte delle MuseArmonia e disincantoIl secolo della musicaDissonanze) sono essi stessi rappresentativi della densità del testo, dal momento che ciascuno evoca, nella sua concisione, un intero plesso di problemi e non rinvia solo a una banale scansione cronologica. La presentazione è sempre aggiornata, precisa,  essenziale ma esente da semplificazioni, e rivela lo sforzo di avvicinare il lettore all’argomento senza comprimere lo spessore dei problemi.

Ciò premesso, qualche riserva è suscitata da alcune affermazioni delle pagine introduttive. Martinelli accenna alle «perenni questioni dell’estetica musicale: il ruolo di sentimenti ed emozioni, i generi musicali e le forme dell’interazione della musica con poesia, teatro e danza, l’aspetto “formalistico” della musica in contrasto con l’espressione (o “rappresentazione”) di eventi mondani, azioni umane o decorsi emotivi, senza dimenticare il raffronto sistematico tra la musica e le altre arti» (p. 9). Nuclei stabili, a suo parere, sebbene proposti in una varietà di declinazioni storiche. Il recensore ritiene invece che la filosofia della musica abbia conosciuto ben pochi elementi di stabilità nel suo percorso: dal suo punto di vista quando talune «costanti» sembrano affacciarsi, si tratta il più delle volte di analogie apparenti, originate, magari, dalla costanza di un lessico pur in presenza di imponenti fenomeni di risemantizzazione. Accade anche che si assegni una valenza troppo ampia a problemi tipici di alcune fasi del pensiero: è difficile, ad esempio, condividere l’idea che tra i temi permanenti della filosofia della musica vi sia «il peculiare statuto ontologico dell’opera d’arte musicale» (p. 9). Questo tema appartiene a un orizzonte abbastanza recente, e non può essere indicato come un tema persistente della riflessione sulla musica.

Un altro aspetto al quale conviene rivolgere l’attenzione (ci riferiamo ancora all’introduzione), è una delle priorità indicate dall’autore: l’aver privilegiato l’«esperienza musicale», lo sguardo diretto alla musica  «“reale”, effettiva, fatta di suoni e di voci, udibile, cantabile, eseguibile» (p. 10). Si tratta di una scelta che, come si ammette subito dopo, lascia sullo sfondo quelle elaborazioni che non hanno inteso la musica come oggetto sensibile. Ma si tratta anche, a mio avviso, di una preferenza poco compatibile con un altro elemento di selezione storiografica dichiarato da Martinelli: l’esigenza di assegnare «uno spazio relativamente modesto a temi quali le competenze individuali, la partecipazione alla vita musicale, i rapporti personali con i musicisti» (p. 10). Naturalmente questo criterio viene applicato con una certa flessibilità e non impedisce all’autore di far entrare in gioco tali fattori quando appaiono funzionali alla «comprensione di una determinata posizione filosofica» (p. 10). Tuttavia l’idea di ritenerli marginali ove non immediatamente connessi ai contenuti della riflessione appare poco condivisibile. L’esperienza musicale – sulla quale Martinelli pone l’accento – si nutre proprio di questi elementi: approfondirli non significa indulgere a un biografismo fine a se stesso, ma far luce sui legami (a volte invisibili al primo sguardo) che uniscono la filosofia alla vita, sul metabolismo che fa affluire la realtà dentro il processo di elaborazione dei filosofi, facendo della filosofia stessa «il proprio tempo colto in pensieri», come si esprimeva Hegel. E, dal momento che abbiamo menzionato Hegel, aggiungiamo che il legame con una base esperienziale va valorizzato anche quando, come accade proprio nella sua Estetica, pietra miliare della filosofia della musica, sembra irrilevante, sommerso dal prevalere di un interesse speculativo.

Ogni titolo è una promessa, e il libro di Martinelli offre esattamente ciò che promette. Certo, qua e là si avvertono delle predilezioni legate a precedenti ricerche dell’autore (lo spazio dedicato a Chladni, ad es., o il tema del “tremore” in Hegel), così come su altri punti si desidererebbe una trattazione più estesa, ma tutto ciò vale per qualsiasi sintesi storica e non rappresenta un limite specifico di questo volumetto. Accantonate, dunque, osservazioni di dettaglio, è proprio il titolo ad offrirci altri spunti di riflessione. I filosofi e la musica: si tratta di due termini legati da una congiunzione il cui significato merita un approfondimento.

Che i filosofi abbiano avvertito da sempre una sorta di attrazione teoretica verso la musica, è fuor di dubbio. Lo dimostra la stessa letteratura filosofica, che ha concesso a questa arte uno spazio e un rilievo che altre (ad. es. le arti visive) non hanno ricevuto. «Fin dall’antichità», scrive Martinelli «emerge l’idea di una segreta affinità tra musica e filosofia, che ne intreccia irreversibilmente i destini» (p. 7).  Potremmo ricordare anche l’icastica affermazione di Alberto Caracciolo, curatore di Musica e filosofia, una raccolta di saggi edita dal Mulino nell’ormai lontano 1973: «la filosofia avverte la musica come una “terra” privilegiatamente sua». Ma, mi domando, il legame tra musica e filosofia è davvero un rapporto privilegiato? All’intensa aspirazione teoretica che porta la filosofia ad annettersi la musica corrisponde un’effettiva centralità del pensiero filosofico nell’interpretare i fenomeni musicali, nel concettualizzarli, nel rappresentarli, nell’esplorarne il senso? È davvero ovvio che la filosofia sia stata in tutti casi lo strumento più profondo, più penetrante per l’investigazione del mondo musicale? Il fatto che senta, o abbia sentito,  la musica come un oggetto “privilegiatamente” suo le attribuisce un diritto di prelazione nel rappresentare le idee e le sensibilità musicali che si sono manifestate nel corso dei secoli?

Una risposta dovrebbe, a mio parere, procedere a un chiarimento preliminare. Quando parliamo di filosofia e di filosofi pensiamo ad un orizzonte professionale strutturato, definito, con uno statuto sempre riconoscibile, o ad una esigenza diffusa tra gli uomini di ogni epoca, indipendentemente dall’organizzazione del loro pensiero, dalla sua collocazione in un alveo determinato (le «discipline» filosofiche)? Della filosofia sono state proposte innumerevoli definizioni generali. Come quella hegeliana, già ricordata (la ritroviamo nella prefazione ai Lineamenti di Filosofia del diritto), che la qualifica come «il proprio tempo colto in pensieri». Parrebbe, seguendo questa indicazione, che qualsiasi sforzo di interpretazione del presente, di chiarificazione intellettuale del mondo (del mondo musicale e della vita musicale, nel nostro caso) possa riconoscersi nella sua giurisdizione, senza riguardo per l’occasione in cui si compie e per i soggetti che se ne fanno carico. E che quindi «il patrimonio di razionalità autocosciente» in cui consiste la storia della filosofia sia l’acquisizione di un soggetto collettivo vastissimo, coincidente con l’umanità. Senonché lo stesso Hegel, che mi è caro avere come compagno di viaggio in questo breve percorso, nell’introduzione alla Enciclopedia delle scienze filosofiche ci propone anche un altro modello, definito attraverso una specificazione assai poco ecumenica: è impossibile filosofare «col solo fondamento d’una ordinaria coltura» perché «per fare una scarpa, occorre aver appreso ed esercitato il mestiere del calzolaio, sebbene ciascuno abbia la misura della scarpa nel proprio piede». In questa prospettiva, la filosofia è un Fach, un «mestiere», una settore specialistico cui si accede attraverso uno specifico percorso di formazione e che si coltiva in un esercizio costante.

Chi sono allora i filosofi, i soggetti ai quali si è tentati di attribuire, insieme a varie altre aree di competenza, anche una sorta di monopolio nella riflessione sulla musica? Nella rappresentazione corrente, conforme all’organizzazione più diffusa del nostro spazio culturale, sulla visione genericamente umanistica (filosofia come attitudine riflessiva e autoriflessiva dell’umanità) fa premio una visione specialistica, legata al secondo modello: i filosofi sono ricercatori la cui attività è connotata non solo da determinate classi di contenuti (compendiate spesso in etichette consolidate nel tempo: metafisica, logica, etica, estetica, e così via), ma anche da una tecnica (lessico, grammatica concettuale, generi, forma e organizzazione del discorso). Sulla base di questa doppia connotazione (oggetti disciplinari e strumenti tecnici), siamo soliti identificare la filosofia con una specifica tradizione intellettuale, ramificata quanto si vuole, ma pur sempre riconducibile ad una genealogia e ad una mappatura storica – assai più stabile che in altri campi – consegnataci dalla trasmissione del sapere.

Se si fa prevalere questa visione l’identità del filosofo è essenzialmente professionale (sebbene non lavorativa: molti filosofi si guadagnavano da vivere in altro modo o non lavoravano affatto). Adottando questi criteri descrittivi è indubitabilmente un filosofo il poco interessante Christoph Wittich, esponente della lunga schiera di detrattori di Spinoza, ma non sono filosofi (e non solo in quanto figure immaginarie) certi personaggi di Balzac, che pure propongono riflessioni avvincenti e originali su temi di carattere generale («il proprio tempo colto in pensieri», pensieri sui rapporti tra gli uomini, sulla relazione tra le virtù e gli interessi, sulle metamorfosi dei caratteri umani), né è un filosofo il narratore stesso, che pure a volte introduce nei suoi romanzi pagine di vera e propria filosofia sociale o di antropologia. Naturalmente il raggio dei problemi filosofici è così ampio da determinare un quadro non uniforme rispetto alla questione qui accennata. È del tutto evidente, ad esempio, che la logica contiene un tasso di tecnicalità tale da poter essere difficilmente acquisito e padroneggiato al di fuori di un orizzonte specialistico, mentre l’etica, per riprendere l’esempio precedente, non implica un controllo professionale della materia.

Qual è il caso dell’estetica e della filosofia della musica? Possiamo ritenere che sia più vicino a quello dell’etica che della logica. Non presuppone strumenti di complessità tale da dover essere acquisiti attraverso una formazione specifica. Nel suo campo, anzi, se è in gioco una dimensione tecnica, è più quella della musica che quella della filosofia: il mondo della musica è intriso, specie in certe epoche, di una regolistica e di apparati tecnico-normativi che a volte i filosofi hanno in qualche misura posseduto (Cartesio, Nietzsche), a volte hanno ignorato (Kant), protendendosi verso un terreno della cui complessità non avevano un adeguato controllo conoscitivo. Il che dovrebbe indurci a guardare con pari indulgenza alla filosofia della musica praticata da filosofi musicalmente inesperti e da soggetti privi di formazione filosofica, quali sono il più delle volte musicisti, saggisti, e critici musicali, che pure ci hanno trasmesso elaborate visioni della musica, cercando di rendere intellegibile la sua sostanza.

D’altra parte la matrice filosofica del pensiero musicale non garantisce necessariamente la rilevanza dei risultati. Non tutti i prodotti filosofici sono di pari interesse, e non tutti gli aspetti della riflessione di un filosofo meritano considerazione. Perché mai dovremmo considerare rilevante il notissimo passo della Terza Critica in cui Kant si esprime sulla «inurbanità della musica», che «disturba il vicinato», passo, come Martinelli ci ricorda, originato dal fastidio che gli provocavano i canti dei detenuti della prigione presso la quale abitava, e non dobbiamo concedere uguale attenzione alla pagina di Stendhal (Le rouge et le noir, capitolo XXII) che ci propone implicite ma tutt’altro che occulte una riflessione sul rapporto tra musica e libertà, descrivendo la brutalità di Valenod, l’ignobile appaltatore dell’ospizio di mendicità che impedisce ai reclusi di cantare perché disturbano i suoi commensali? Basta il prestigio del Sistema, forma filosofica per eccellenza, a dare pregio a tutti i suoi contenuti?

In effetti, se ci affidiamo ad un criterio di rilevanza piuttosto che a un criterio similburocratico di competenza, vediamo aprirsi di fronte allo storico un vasto campo di «filosofie» della musica elaborate da soggetti estranei a un rapporto professionale con la filosofia, il cui pensiero si incanala in veicoli comunicativi nei quali non riconosciamo i caratteri esterni della prosa filosofica (densità, spinta astrattiva, coesione, linguaggio settoriale, tecnicismi, ecc.). La difficoltà di contenere la materia nel perimetro della filosofia dei filosofi, senza vederla sfumare verso altre regioni del sapere, d’altra parte è ben presente allo stesso Martinelli, che nelle sue pagine introduce talora riferimenti a protagonisti provenienti dalle fila della letteratura, della critica o delle professioni musicali. E nella prefazione ammette di aver dovuto concedere uno spazio, per quanto limitato, anche «a personalità che non rientrano nell’alveo della storia della filosofia» (p. 11).

È dunque difficile far corrispondere l’interesse obiettivo della materia con l’appartenenza dei suoi cultori all’hortus conclusus di una tradizione intesa in senso stretto. Parlo di interesse obiettivo perché valutabile su piani obiettivi, a prescindere dalla sua matrice: il piano della rappresentatività (capacità di dar voce a opinioni diffuse e a un sentire diffuso) e quello dell’incidenza (capacità di innescare discussioni e processi culturali di una certa ampiezza). La musica come oggetto della storia della filosofia rappresenta uno strato assai sottile del tessuto culturale. È senz’altro legittimo tematizzarla, come propone Martinelli, sulla base di un particolare approccio selettivo. Ed, oltre che legittimo, è anche utile quando, come avviene nelle sue pagine, si introducono contenuti poco presenti in altri compendi, come ad es. gli sviluppi della fenomenologia della musica in Moritz Geiger o Waldemar Conrad, la scuola di Meinong, o recenti presenze anglosassoni (Jerrold Levinson, Peter Kivy). D’altronde sarebbe insensato rimproverare a un libro di non essere quello che non intende essere. Ma il nostro desiderio di conoscenza ci spinge verso un terreno più aperto. Specialmente oggi, giacché la nostra nozione di cultura è stata obbligata a confrontarsi con fenomeni che ne hanno dilatato il senso. E ciò ha messo in mora anche le narrazioni del passato ancorate a partizioni dell’attività intellettuale che ci paiono sempre meno definitive.

Rappresentatività e incidenza, i due criteri prima indicati come rispondenti alla domanda di un’esposizione più completa degli sforzi dell’umanità per trovare il significato della musica, inevitabilmente ci guidano oltre la semplice rassegna di filosofi che hanno condiviso l’interesse per questo oggetto. Ci inducono a rinunziare al conforto dell’esistente e ci indirizzano verso presenze del pensiero musicale in ambiti esterni a tale sequenza storica. E fanno nascere un senso di inadeguatezza di fronte a quadri storici disegnati facendo semplicemente planare il modello della storiografia filosofica sul terreno della cultura musicale. Beninteso, ciò non deve tradursi in un’altra preclusione, speculare alla precedente. Lo studio delle dottrine filosofiche sulla musica rimane comunque produttivo, se inserito in un contesto più ricco. Si tratta di aggiungere nuovi elementi di conoscenza, non di archiviare le acquisizioni maturate sul terreno fino ad oggi più praticato. A ben vedere i due orientamenti sono in qualche modo complementari: l’uno concentrato su una singola tradizione tendente ad autoriprodursi, fedele all’idea dell’esemplarismo e del protagonismo del filosofo, l’altro, mosso da pulsioni centrifughe, proiettato verso una storia delle idee di più ampio raggio, non riferibile a un singolo ceto intellettuale.

Senonché la seconda linea di ricerca, a differenza della prima, non ha trovato sinora una sistemazione organica. Certo, non sono mancati studi su aspetti particolari, ad esempio sulle idee di alcuni musicisti, sui grandi dibattiti critici, sulle visioni del mondo sottese alle innovazioni compositive. È però mancata una narrazione storica complessiva di questo livello della cultura musicale, anzi, è mancata la sua individuazione come campo di indagine con contenuti propri, non residuali rispetto all’impegno «maggiore» della rappresentazione filosofica, nonostante – torno ancora a questi parametri – la sua rappresentatività e la sua incidenza.  Di conseguenza è mancata anche una sintesi dei due livelli, una percezione prospettica, tridimensionale, in grado di raccordare i piani su cui si articola il nostro patrimonio di idee e conoscenze in campo musicale.

In definitiva, l’iniziativa editoriale dalla quale queste righe prendono le mosse ravviva l’esigenza di un impegno di ricerca parallelo, finora sviluppato al di sotto delle sue potenzialità, su un terreno meno monumentale ma non meno fertile di quello praticato dalla «serie dei nobili spiriti, la galleria degli eroi della ragione pensante», per chiudere con un’ultima citazione hegeliana (Lezioni di storia della filosofia).

Antonio Serravezza