La musique face au système des arts ou les vicissitudes de l’imitation au siècle des Lumières, a cura di Marie-Pauline Martin e Chiara Savettieri, Paris, J. Vrin, 2013, pp. 1-345.
I.
L’imitazione (mimèsi) è uno dei concetti più discussi della cultura artistica europea. Dalle prime riflessioni di Platone e di Aristotele agli estheticiéns del XVIII secolo, l’imitazione definisce la natura e i limiti di quella particolare attività umana che va sotto il nome di arte, intesa come produzione di oggetti artificiali attraverso l’imitazione della natura. Natura e arte sono i due poli della relazione dinamica tra la potenza della natura naturans e l’intelligenza dell’artefice umano, che ne indaga i segni e ne riproduce le forme nelle arti imitative.
Un concetto tanto importante non poteva non godere di una duratura fortuna nelle diverse epoche della cultura europea. Il secolo XVIII in particolare ha un ruolo centrale nella storia dell’imitazione, in quanto i teorici illuministi ne fanno il principio stesso delle attività che educano l’uomo al piacere e alla bellezza. Queste attività sono le belle arti della poesia, della pittura, della scultura, della musica e della danza. Esse imitano la natura con propri materiali e con proprie regole, la perfezionano, e grazie all’intervento originale dell’uomo conferiscono un valore aggiunto agli oggetti rappresentati. Tuttavia il principio dell’imitazione non ha la stessa validità per tutte le arti. La musica, in particolare la musica strumentale (concerti, sinfonie, ouvertures), si sottrae in parte al principio dell’imitazione, generando tensioni nella koinè artistica e nel principio che le unifica. Il libro curato da Marie-Pauline Martin e Chiara Savettieri per l’editore parigino Vrin discute precisamente la musica all’interno del sistema settecentesco delle arti e del canone che le governa. L’inchiesta ha come fine non solo l’emancipazione della musica da una mimèsi rigidamente intesa, ma anche la sua fecondità nel promuovere nuovi esiti teorici al sistema settecentesco delle arti.
Terminus a quo dell’indagine è il Cabinet des beaux-Arts ou Recueil d’Estampes gravées d’apres les Tableaux d’un plafons ou les beaux Arts sont représentés avec l’explication de ces memes Tableaux (1690), di Charles Perrault: una sorta di manifeste-miniature (così la curatrice a p. 36) della scelta di campo modernista dell’autore. Terminus ad quem è l’Essai sur le perfectionnement des beaux-arts par le sciences exactes, ou Calculs et hypothèses sur la poésie, la peinture et la musique (1803), opera dell’ingegnere militare Jacques-Antoine de Révéroni Saint-Cyr: «une brillante synthèse de la réflexion du siècle des Lumières sur le système des arts d’imitation…» (Eadem, p. 24) Dagli esordi iconografici dei beaux arts nel grand siècle il romanzo settecentesco dell’imitazione termina a inizio XIX secolo ancora nei beaux arts, perfezionati ora dalle scienze positive!
Incentrato sul versante culturale francese con alcune significative escursioni oltre Manica e nella Germania della II metà del XVIII secolo, La musique face au système des arts chiama a raccolta le competenze di ben 24 studiosi, i cui lavori sono introdotti dal saggio di una delle curatrice del volume, Marie-Pauline Martin, per un totale di circa 340 pagine. Un progetto tanto ambizioso ha evidentemente richiesto una messa a punto teorica e metodologica impegnativa, se non altro per dirottare i singoli contributi entro i percorsi di un discorso teorico multidisciplinare, in sintonia col dibattito settecentesco sul sistema delle belle arti. La messa a punto metodologica dei curatori enfatizza lo “spirito di sistema” che nel secolo dei Lumi orienta il discorso sulle arti, mette in risalto la “natura sistemica” di una riflessione il cui oggetto sono le trasformazioni dell’imitazione nella cultura del diciottesimo secolo. L’esito della riflessione metodologica sono sei diversi percorsi d’indagine o itinerari di lettura, che in quattro tappe successive, quanti sono i saggi per ciascun percorso, illustrano al Lettore le complesse vicende dell’imitazione nel secolo delle belle arti.
La prima sezione ha titolo De l’objet au référent: la musique comme partie du système des beaux-arts (alle pagine 27-77). Il viaggio inizia, come ricordato, dal Cabinet di Perrault, primo inquadramento iconografico della musica nell’atelier moderno delle arti mimetiche, studiato da Th. Psychoyou. Nello sviluppo storico del secolo illuminato, la musica è poi non solo ‘parte’ ma ‘referente’, pietra di costruzione del sistema moderno delle arti: dapprima con le Refléxions critiques sur la poésie et sur la peinture di Jean-Baptiste Dubos, che nell’edizione del 1733 comprendono una terza parte sulla musica (M. Mazzacut-Mis), quindi nelle teorizzazioni di Denis Diderot, che pensa le arti come “système des sens” (G. Di Liberti), infine nella festa repubblicana di inizio secolo XIX, dove la musica assume come propria missione sociale e educativa la formazione del cittadino (M.-P. Martin).
Nella seconda sezione, Du référent au modèle: la musique exemplaire (pp. 79-120) c’è l’accelerazione del processo di ‘emancipazione’ della musica dalle arti imitative: la musica è “modello” delle altre arti nei saggi di E. Lavezzi, di nuovo sul Dubos, di E. Fubini, ancora su Diderot, e di Ph. Robinson su Jean-Jacques Rousseau; e tuttavia, nell’explicit di tutto il discorso, nell’Essai di de Révéroni Saint-Cyr discusso da J.-F. Coz, assistiamo alla riconferma del primato dell’imitazione, sia pure in senso “materialistico”, e alla riunificazione (finale?) di musica poesia pittura.
Nella terza parte del libro, Le langage pittoresque de la musique: fortune d’un présupposé au XVIII siècle (pp.121-170) si assiste alla revisione del principio razionalistico dell’imitazione, esemplificato da Charles Batteux, e alla sua ridefinizione “sensualista”, se non al suo rigetto, negli scritti teorici di Michel-Paul-Guy de Chabanon, di [Pascal] Boyé, di André Morellet, di Comte Bernard-Germain- Étienne de Lacépède e di altri scrittori, tra cui gli inglesi Thomas Twining e William Jones (saggi di V. Llort Llopart, G. Guertin e M. Hobson), fino alla sua estenuazione pre-romantica e romantica (E. Reibel).
La quarta parte del volume, L’imitation de la musique à l’épreuve de la scène (pp. 171-210) inaugura un registro del tutto originale nel discorso estetico settecentesco. A introdurlo è il quesito di M. Noiray, come spiegare la distanza che si registra tra gli scritti di estetica e le opere musicali. La musique à l’épreuve de la scène è quindi argomentata da B. Didier con riferimento all’opéra lyrique di Jean-Philippe Rameau, da C. Champonnois nel confronto tra il libretto del Sabinus e gli scritti teorici di Chabanon, e da A. Dratwicki sull’arte della danza negli anni 1770-1810.
Le gènie musical et la poétique de la peinture (pp. 211-267) è la quinta parte del volume. Vi sono argomentate le idee di quei critici e teorici settecenteschi che esibiscono il proprio duplice interesse alla musica e alle arti visive. È il caso di François-Jean de Chastelleux studiato da C. Savettieri, che associa musica e pittura, o, del conte Caylus, che è invece oppositore dell’analogia suoni-colori (saggio di U. Boskamp), o dei ‘parallèles’ tra le arti nei saggi di L. Pierre e di F. Dassas.
Nella sesta e ultima sezione, Une esthétique européenne: la musique et le système des arts d’imitation dans l’Angleterre et l’Allemagne des Lumières (pp. 269-326), il discorso sulla musica nel sistema delle belle arti si sposta oltre Manica, coi saggi di J. Blanc su Gainsborough e di M. Semi sull’estetica di Francis Hutcheson letto da Diderot, e in Germania, nei saggi di L. Lattanzi sul Laocoonte di G.E. Lessing e di È. Décultot sull’Allgemeine Theorie der schönen Künste (1771, 1774) di J.G. Sulzer.
II.
Ho presentato al Lettore per sommi capi le finalità di La musique face au système des arts, le sue articolazioni interne, gli argomenti discussi dagli autori nel corpo a corpo che li ha visti impegnati coi teorici settecenteschi delle arti imitative. Ora è opportuna una riflessione critica sul contributo del volume nel suo complesso. Quali nuove conoscenze il libro apporta allo studio della letteratura settecentesca sulle arti, sul principio che le unifica in un ‘sistema’, e sulla musica all’interno del sistema? A qual punto l’indagine condotta in La musique face au système des arts modifica la nostra coscienza storiografica dell’estetica illuministica? Il Lettore non troverà nel volume novità significative, tali da modificare nella sostanza una storia già nota: è nota la collocazione precaria della musica nel sistema moderno delle arti per la sua limitata adesione al principio aristotelico dell’imitazione; è anche noto che dalla seconda metà del XVIII secolo proprio questa criticità porta i letterati europei a descrivere la musica in termini di indeterminatezza, di vaghezza o anche di imperfezione del linguaggio musicale, fino ad elaborare il principio estetico di espressione, che àltera il fondamento del sistema settecentesco delle arti e prepara il capovolgimento romantico della gerarchia dei valori estetici che nella musica individuava l’anello debole del sistema e nella poesia il suo apex. Il pregio del libro non è la novità della linea interpretativa, assodata nelle sue trame principali, quanto il quadro unitario e coeso – non frammentato – della discussione sulle arti nel secolo dei Lumi. La metodologia unitaria (o l’esprit de système) ha il merito di illustrare la funzione storica della musica, che più d’ogni altra arte imitativa della cultura artistica del Settecento guida e orienta il transito della cultura europea dal canone estetico del Classicismo ai nuovi valori artistici del Romanticismo. Che l’indagine sia focalizzata per tre quarti sul versante della cultura francese, e trascuri altri importanti testimoni europei, non è una lacuna grave. La concentrazione di scritti filosofici, letterari, musicali e speculativi sulla natura e sul principio delle belle arti ha conosciuto proprio nella cultura francese, anche grazie all’impulso della querelle des anciens et des modernes di fine Seicento, la propria fase propulsiva nella prima metà del Settecento, per poi diffondersi nel resto dell’Europa soprattutto dalla seconda metà del secolo. A questo si può aggiungere che le fonti più note e studiate – da Dubos a Chabanon passando per Batteux Diderot Rousseau – sono affiancate nel libro ad altre fonti meno note, da Perrault a de Révéroni Saint Cyr passando per Chastelleux, Boyè o de Quatremère de Quincy, che ampliano in modo considerevole il perimetro storico della discussione. L’impressione di coesione e di continuità dell’indagine storica è forse il risultato della premessa metodologica della ricerca, che assume la musica come referente privilegiato del discorso sulle arti per oltre un secolo. Alcune affermazioni programmatiche del saggio introduttivo sono molto chiare al proposito, in quanto alla musica come ‘parte’ del sistema affiancano l’analisi della musica come ‘referente’ e ‘modello’. Come ‘referente’, la musica «soumet les autres arts à l’épreuve de sa propre spécificité; pensé encore comme modèle d’une conception particulière du beau, il fournit alors l’instrument d’une appréciation des autres disciplines, met en jeu leur propre statut et leur ordonnance hiérarchique». (p. 11) I curatori di La musique face au système des arts hanno avuto ben chiara questa premessa e l’hanno condivisa con gli autori chiamati a collaborare all’impresa, i quali (cosa abbastanza rara) hanno in genere corrisposto alla consegna. In questo cimento risulta una volta di più confermato un dato storico tanto evidente quanto poco riconosciuto dagli studiosi, musicologi compresi: ossia che la cultura europea reca in ogni epoca l’impronta inconfondibile dell’arte musicale, sia essa la disciplina quadriviale che teorizza le forme sonore del mondo dall’antichità al Settecento (“da Pitagora a Rameau”), sia essa l’arte imitativa o espressiva che pone le premesse del modello musicologico dominante dal Romanticismo. Ho detto “musicologi compresi”, perché la musicologia non sembra particolarmente interessata a mettere in luce il contributo della musica alla costruzione della cultura europea, dando l’impressione di non sentirsi parte essenziale di questa costruzione e di non aspirare a porsi all’altezza del proprio illustre passato. La musique face au système des arts incoraggia invece l’aspirazione della musicologia a illuminare la cultura di un’epoca della storia occidentale, qui l’età dei Lumi, attraverso l’arte della musica.
III.
Forzando forse i termini di una recensione, vorrei ora commentare alcuni luoghi del volume per attivare un confronto tra studiosi che operano in contesti istituzionali diversi ma che condividono l’interesse per l’estetica musicale. Poiché penso di avere tratto molto vantaggio dalla lettura di un volume complesso, che coordina tanti oggetti e intelligenze, mi permetterò di avanzare alcune riserve sui punti che mi sono sembrati più stimolanti o anche critici, allo scopo, ripeto, di una possibile condivisione di idee e di future prospettive di ricerca comune. Vorrei cominciare dalla scelta della periodizzazione: a un estremo il Cabinet des beaux-Arts (1690) di Charles Perrault, all’altro estremo l’Essai sur le perfectionnement des beaux-arts par le sciences exactes (1803) di Jacques-Antoine de Révéroni Saint-Cyr. Non ho trovato convincenti le ragioni di questa periodizzazione. Psychoyou si chiede «si le Cabinet des beaux Arts marque, en 1690, une frontière”; la studiosa interpreta poi la scelta di Perrault delle allegorie delle arti (“On a choisi entre les Arts qui méritent d’être aimés et cultivés par un honnête homme ceux qui se sont trouvés être davantage du goût et du génie de celui qui les a fait peindre dans son cabinet…»: così Perrault, alla p. 31) come una sorta di manifesto del canone moderno del bello, «dont la représentation théorique, fondée sur la perception, sur l’expérience sensible et donc sur la l’évaluation esthétique, a déjà abandoné le projet d’une rationalisation objective». (p. 37) Se si rammenta che nel Cabinet di Perrault beaux Arts (eloquenza poesia musica architettura scultura) è un’espressione affiancata a “arti liberali” (les beaux Arts ou les Arts libéraux, scrive Perrault, ibid.), che in Perrault le belle arti includono ottica e meccanica (due ‘scienze medie’), e che il loro numero, otto, è puramente casuale, perché tanti, né più né meno, erano gli spazi disponibili per le incisioni, forse queste imbarazzanti anomalie di pensiero del ‘moderno’ Perrault avrebbero dovuto consigliare a mio parere una maggiore prudenza nel giudizio storico. L’urgenza di identificare il terminus a quo della musique face au système des beaux arts quale antecedente dell’estetica dei Lumi ha forse condotto ad una sorta di sopravvalutazione della fonte secentesca. Di fatto, il contradditorio Cabinet di Charles Perrault è investito di un mutamento epocale che le sue fragili fondamenta teoriche non sono in grado di reggere. La collocazione del Cabinet tra due età della musica – antica: la musica come scienza, e moderna: la musica come arte – è certamente sensata e sostenibile in vari modi; tuttavia l’argomentazione di Psychoyou tende a drammatizzare una valutazione astrattamente teorica delle due epoche tra le quali il breve scritto di Perrault si trova collocato. A sua volta, l’Essai di Révéroni Saint-Cyr non ha a mio parere i requisiti filosofici per configurarsi come «une brillante synthèse de la réflexion du siècle des Lumières sur le système des arts d’imitation, tout en initiant un méthode d’investigation résolument expérimental – qu’a pu seule engendrer, au tournant du XIXe siècle, l’émergence des sciences positives». (p. 24) L’enfasi eccessiva di queste espressioni sull’Essai dell’ingegnere illuminato, ufficiale del genio francese nonché drammaturgo e teorico, idealizza forse lo scritto di Révéroni Saint-Cyr ben oltre i limiti di un prudente giudizio storico.
L’arco cronologico tra i due estremi di Perrault e di de Révéroni Saint-Cyr abbraccia le prime tre sezioni del volume (vedi sopra). Nella prima sezione, dopo lo studio su Dubos di Lavezzi e prima del saggio di M.-P. Martin sulla feste repubblicane, il Lettore è forse un po’ sconcertato dalla tesi di Di Liberti, secondo il quale Diderot teorizza le arti come “système des sens”. Non ci si aspetta certo che nel filosofo illuminista la ragione debba sempre trionfare, ma una lettura degli scritti medici di Diderot, dal Rêve de D’Alembert agli Élémens de physiologie, indurrebbe a distinguere tra sensibilité e sens, tra il livello del sentire e della sensibilità e il livello del senso e della sensazione su cui si sviluppa la riflessione di Diderot. Anche in questo caso sembra che l’ombra avvolgente dell’estetica come scienza della sensazione allarghi le proprie pretese, suggerendo una formula d’effetto, nella sostanza un po’ sbrigativa, per il tormentato percorso di Diderot tra arti, musica e filosofia – tra sensibilité e raison. Nella seconda sezione (Du référent au modèle: la musique exemplaire) la decisione di porre la musica come referente e modello delle arti, per mettere in gioco lo statuto delle discipline sorelle, ha forse preso (di nuovo) la mano ad alcuni autori: ad esempio, nel saggio di Fubini su Diderot il carattere che fa della musica il modello delle arti è una non ben specificata “musicalità”: un concetto un po’ generico per mettere alla prova la poesia, la pittura, la statuaria, e che comunque non trova riscontro nei testi di Diderot citati dall’Autore. Allo stesso modo, nel saggio di Robinson non è chiaro come il principio dell’unità della melodia in Rousseau possa porre la musica come “esemplare” delle arti. Forse la premessa metodologica in La musique face au système des beaux arts, che immagina una musica che «soumet les autres arts à l’épreuve de sa propre spécificité», condiziona in parte il discorso sugli autori settecenteschi studiati, e alle loro figure storiche sembra affiancarsi nel corso della lettura un loro doppio teorico.
Non entro nel merito dei contributi della terza sezione del libro (Le langage pittoresque de la musique: fortune d’un présupposé au XVIIIe siècle, alle pagine121-170), di cui ho brevemente detto nella prima parte di questa recensione, né intendo discutere le due sezioni conclusive, quinta e sesta (vedi infra): funzionali alla coerenza interna del disegno complessivo di La musique face au système des beaux arts, queste sezioni mi sembrano tuttavia più laterali rispetto al nucleo centrale del discorso e alle sue premesse metodologiche. In questa pagina conclusiva vorrei invece discutere il saggio di Michel Noiray nella quarta sezione del libro, L’imitation de la musique à l’épreuve de la scène, per poi terminare con alcune osservazioni generali. Il saggio di Noiray «Musique imitative et discours de l’imitation: réflexions sur un écart» (alle pp. 173-179) solleva un problema delicatissimo, che va ben oltre l’epoca studiata (anche se l’analisi si muove all’interno della cultura musicale del secolo XVIII). Noiray sottolinea lo scarto tra estetica e arte musicale, due attività che in realtà portano sullo stesso oggetto: la musica («…écart entre deux activités pourtant si proches par leur objet», p. 174). La dicotomia interessa secondo Noiray anche il discorso storico, che dovrebbe cercare di colmare la distanza tra estetica e composizione, tra il livello teorico e il livello pratico della scienza e dell’arte dei suoni. A ben riflettere, la questione sollevata da Noiray riguarda il senso o, meglio, i molti sensi della musica in una particolare epoca storica: come la musica diventa pensiero nel discorso, e, viceversa, come il discorso orienta e ispira la musica del compositore? Questo duplice transito è per di più complicato dai fattori culturali che convergono nella rappresentazione del mondo dell’epoca studiata, e dal ruolo specifico della musica in questa rappresentazione. Noiray sostiene che la conversione in discorso dell’esperienza estetica dei teorici (nel Settecento: i teorici dell’imitazione) resta un mistero («…la conversion en discours de leur [sc. les théoriciens de l’imitation] expérience sensible risque de nous rester un processus à jamais mystérieux», p. 179). Forse il mistero ha oltre due millenni (“da Pitagora a Rameau”): nella tradizione europea la musica rappresentata è solo il riflesso lontano e attutito di esperienze musicali. Precisamente a iniziare dal XVIII secolo gli scrittori di estetica avvertono lo scarto e cercano di colmarlo attraverso una nuova formazione culturale, antecedente di una musicologia che trova forse scandaloso il mistero che sta alla base di ogni rappresentazione del mondo.
Ho scritto che La musique face au système des arts rende più coesa e coerente la storia dell’imitazione all’interno delle vicende del sistema illuministico delle belle arti: più numerose sono le fonti esaminate, più articolata è la metodologia che le interroga. E tuttavia si ha l’impressione che il discorso interamente focalizzato sull’imitazione pecchi di unilateralità e subordini a sé altri concetti estetici che gli sono storicamente collegati, e ne sostanziano la discussione nelle fonti prese in esame (o in quelle trascurate). Penso ad esempio al tema del piacere musicale, che ha una lunga storia ‘estetica’ da raccontare; o anche alla nozione di gusto (non solo musicale), che qualcuno potrebbe indicare come il fiat! dell’estetica moderna. Il libretto di Gallois, Lettre … touchant la musique del 1680, o alcuni testi della Comparaison de la musique Italienne et de la musique Françoise. Où … on monstre quelles sont les vrayes beautez de la Musique (1705) di Le Cerf de la Viéville (sul gusto musicale, sull’opera), o ancora i saggi di André Crousaz o di Y.-M. André sul bello, in particolare sul bello musicale, sono altrettante fonti in cui la ricerca del principio delle belle arti è strettamente collegato all’analisi di altri concetti centrali nel discorso estetico-musicale settecentesco. Si potrà certamente obiettare che la scelta storiografica di La musique face au système des arts è l’imitazione, e che la scelta ha volutamente trascurato altri concetti. Rispondo che anche le scelte storiografiche possono essere discusse, che si può ragionare su ciò che le giustifica, sulla loro natura ermeneutica e sulla loro estensione. L’imitazione non si nutre di sé, si nutre di altri elementi culturali. Si ha invece la sensazione che il concetto d’imitazione esaminato in La musique face au système des arts finisca man mano per assumere un carattere totalitario, che emargina per la propria assolutezza altri concetti che potrebbero arricchire il quadro dei problemi estetico-musicali esaminati: quasi che l’imitazione sia fine a se stessa, un oggetto assoluto e autoreferenziale, non una prospettiva storiografica per illuminare le arti, la musica, e l’attività umana che ne sta alla base. Da questo punto di vista La musique face au système des arts, ou les vicissitudes de l’imitation au siècle des Lumières curato da Marie-Pauline Martin e Chiara Savettieri tende forse a sacrificare il discorso musicale del secolo dei Lumi sull’altare monoteista dell’imitazione.
Paolo Gozza