Aesthetic Heteronomy (2016)

Tra il 22 e il 23 aprile del 2016 si è svolto presso l’università di Södertörn (Stoccolma) un convegno internazionale dal titolo Aesthetic Heteronomy: New Perspectives on the Long Eighteenth Century organizzato da Karl Axelsson, Camilla Flodin e Mattias Pirholt. Il convegno intendeva interrogare il paradigma interpretativo che vede nel concetto di “autonomia estetica” un tassello fondamentale per la nascita stessa della disciplina chiamata estetica, e che ne afferma la rilevanza e operatività fin dal secolo XVIII. Secondo gli organizzatori tuttavia: «While contemporary aesthetic autonomy owes its debts to the progress made during the eighteenth century, such autonomy was nevertheless born out of an aesthetic miscellany addressing art, nature, morals, as well as politics – usually all at once. European philosophers and critics such as the third Earl of Shaftesbury, Joseph Addison, Mary Wollstonecraft, Jean Jacques Rousseau, Denis Diderot, Johann Wolfgang Goethe, Friedrich Schiller, and Friedrich Schlegel, all perceived aesthetic experience within these large parameters». L’idea generale è, in buona sostanza, che se è vero che la nascita del concetto di autonomia estetica può essere rintracciata nel secolo dei Lumi (celebre è l’articolo del 1961 di Jerome Stolnitz, “On the Origins of ‘Aesthetic Disintrestedness’”), è anche vero che questo concetto ha assunto una particolare rilevanza per l’estetica solo in seguito.

Gli organizzatori hanno quindi proposto una riflessione che intende chiamare in causa il nostro modo di approcciare lo studio dell’estetica del secolo XVIII, invitando a non isolare i contenuti “autonomamente estetici” dalle loro connessioni con riflessioni di ordine morale, politico, ecc.

Gli interventi dei convenuti hanno così spaziato dall’esame della natura dell’esperienza storica in Winkelmann (Sven-Olov Wallenstein), a riflessioni sull’eteronomia estetica in Kant e Hölderlin (Camilla Flodin), sulle origini dell’estetica (Karl Axelsson), o sulla natura dello sperimentalismo goethiano (Mattias Pirholt).

Nel caso di chi scrive, l’intervento ha preso come oggetto la figura del ‘castrato’ nel secolo XVIII in Gran Bretagna. La tesi sostenuta è che se il ‘castrato’ ha rappresentato un indubbio ‘fenomeno estetico’ che può e deve essere esaminato da un punto di vista propriamente ‘estetico-musicale’, dall’altro è assolutamente impossibile (nonché potenzialmente dannoso per la comprensione del fenomeno stesso) isolare tale esame dal contesto politico, culturale, economico dell’epoca. Ho voluto dunque usare questo esempio evidente per mettere in luce quanto uno studio che muovesse dalla prospettiva di una ‘autonomia estetica’ rischierebbe non solo di non comprendere appieno, ma soprattutto di ridurre e semplificare un fenomeno ricco e complesso. L’intervento ha voluto inoltre evidenziare come anche lo studio di un argomento di tipico interesse musicologico, come quello della figura del castrato, possa trarre enorme giovamento da un approccio multidisciplinare (come testimoniato dal recente e brillante studio di Martha Feldman, The Castrato. Reflections on Natures and Kinds, 2015), e invitava dunque a porre attenzione ai tranelli dell’“autonomia disciplinare”. Infine si è voluto utilizzare il caso in esame per porre l’attenzione sul fatto che i trattati filosofici, le teorie esposte nei saggi letterari ecc. non sono l’unica fonte possibile per la storia dell’estetica, ma che – richiamandomi all’importante testo di Robert Darnton, The Literary Underground of the Old Regime – esiste una Grub Street dell’estetica ancora tutta da sondare e che riguarda i “fenomeni estetici” stessi. Se i trattati ci rimandano all’aspetto più noto, quello normativo, dell’estetica, i fenomeni ci rimandano alla dimensione non-normativa di una storia dell’estetica che viaggi fianco a fianco con una storia della ricezione.

È utile sapere che il tema del convegno diventerà oggetto di un progetto triennale dal titolo Reassessing the Rise of Aesthetics: Aesthetic Heteronomy from Shaftesbury to Schelling finanziato  dalla Swedish Foundation for Humanities and Social Sciences.

Maria Semi